Duemila anni fa il «Verbo», cioè la Parola forte di Dio, si fece carne in Palestina. Si tratta di un mistero salvifico che ha cambiato la Storia dell’umanità e che papa Francesco ha reso quanto mai attuale durante il suo recente viaggio apostolico in Africa (prima in Kenya, poi in Uganda e infine nella Repubblica Centrafricana), inaugurando l’Anno Santo della Misericordia a Bangui. Tra le diverse chiavi di lettura, ce ne è una che accomuna i cattolici, i fedeli di altre confessioni cristiane e di religioni diverse e anche i i non credenti: la consapevolezza di aver assistito, nel breve volgere di meno di una settimana, dal 25 al 30 novembre, a un avvenimento storico con il quale misurarsi per l’impatto della predicazione del papa e per l’accentuata riflessione sui temi ispirati alle sue due encicliche: Evangelii Gaudium e Laudato Si.
Ma soprattutto per alcuni gesti, il più significativo dei quali è stato voler far partire, in anticipo, l’Anno giubilare in un luogo che appartiene ai cosiddetti bassifondi della storia. Francesco ha infatti aperto la prima Porta santa non a San Pietro in Vaticano, ma nella cattedrale della capitale centrafricana (per inciso, dedicata all’Immacolata Concezione di Maria, nella cui memoria liturgica, l’8 dicembre, la bolla d’indizione fissa l’inizio del Giubileo della Misericordia). E subito dopo ha percorso le vie della città insieme con l’iman musulmano, quasi a dire al mondo che per la prima volta in oltre settecento anni nella storia giubilare (un istituto ebraico veterotestamentario, quello del Giubileo, di natura politica prima ancora che religiosa, trasferito dell’esperienza cristiana nel 1300 da Bonifacio VIII) possono riconoscersi nell’Anno Santo della Misericordia non solo i cattolici, anche i fedeli di religioni diverse, insieme naturalmente ai cristiani delle altre confessioni.
Del resto, è stato lo stesso Bergoglio, al suo rientro a Roma, a dichiarare che la tappa centrafricana, la terza del viaggio, compita nel cuore del continente, geografico e non solo, «…era in realtà la prima nella mia intenzione, perché quel Paese sta cercando di uscire da un periodo molto difficile, di conflitti violenti e tanta sofferenza nella popolazione. Per questo ho voluto aprire proprio là, a Bangui, con una settimana di anticipo, la prima Porta santa del Giubileo della Misericordia, come segno di fede e di speranza per quel popolo, e simbolicamente per tutte le popolazioni africane, le più bisognose di riscatto e di conforto». Ben consapevole di visitare quelle che tante volte ha definito periferie esistenziali e geografiche della post-modernità, ha voluto aprire una porta alla speranza, con un gesto profetico e moralmente ineccepibile, contrapposto alle persistenti chiusure di quella che chiama “la globalizzazione dell’indifferenza”.
Già a Bangui, parlandone come di una «capitale spirituale del mondo», Bergoglio aveva spiegato che «l’Anno Santo della misericordia viene in anticipo» perché «in questa terra sofferente ci sono anche tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra». Attraverso cioè una sofferenza ingiusta che come spesso accade, non solo in Africa, vede i responsabili ammantare i loro interessi e la loro ferocia con blasfeme motivazioni pseudoreligiose. A devastare la Repubblica Centrafricana sono le milizie della Seleka (alleanza in lingua locale sango) formate in gran parte da jihadisti islamici, in maggioranza stranieri, e quelle sedicenti cristiane cosiddette Antibalaka (balaka, sempre in sango, è il nome di un coltellaccio che caratterizza l’equipaggiamento dei combattenti Seleka). Tanto più significativo, dunque, che le strade insanguinate di Bangui siano state percorse insieme dal papa di Roma e dall’iman della città. Anche questo è stato un modo con il quale il pontefice ha affrontato la vexata quaestio del jihadismo che, come detto, dà segnali preoccupanti nella Repubblica Centrafricana e ha già da tempo contaminato il Kenya, dove trova alimento, oltre che radici, in una delle più annose crisi africane, quella della Somalia.
Proprio in Kenya, infatti, si è manifestata più ancora che in patria la deriva terroristica assunta dalle milizie radicali somale di al Shabaab, con stragi aberranti come quella degli studenti cristiani nell’università di Garissa lo scorso aprile, per non parlare di quella del centro commerciale Westgate di Nairobi nel settembre del 2013. A questo proposito, senza peli sulla lingua, Bergoglio ha ribadito con forza uno dei suoi cavalli di battaglia e che cioè il nome di Dio «non deve mai essere usato per giustificare l’odio e la violenza», spiegando a chiare lettere che il dialogo interreligioso «non è un lusso, ma è essenziale». Il tema è rovente non solo in Africa, ma anche in Europa e in altre parti del mondo perché acuisce la cultura del sospetto e della paura, sebbene nessuna persona anche minimamente informata non abbia consapevolezza che dietro le quinte si celano interessi avulsi dalla religione in quanto tale.
Basti pensare alle immense ricchezze minerarie della Repubblica Centrafricana, che vanno dal petrolio all’uranio, oltre ai diamanti presenti nei grandi depositi alluvionali delle regioni occidentali del Paese. Tuttavia, è indubbio che le situazioni di aggressività e tensione che contraddistinguono le aree geografiche dove si è recato il pontefice, trovino poco spazio nella normale informazione occidentale. Anche le voci diventate a un certo punto insistenti di un rinvio del viaggio papale, soprattutto nella Repubblica Centrafricana, più che alla persistente violenza nel Paese erano legate agli attentati terroristici che hanno insanguinato lo scorso novembre Beirut, Parigi e Bamako. Né erano mancati suggerimenti e pressioni, in un’apparenza di buon senso, per tale scelta «dettata dall’emergenza». Ovviamente – e l’avverbio non è scelto a caso – Bergoglio ha deciso di non cambiare programma, rispettandolo alla lettera, nella consapevolezza che, di fronte alle intimidazioni dei violenti, occorre testimoniare, sempre e comunque, il Vangelo della Pace. Una testimonianza fatta anche con gesti di chiara scelta di normalità, come la rinuncia ad automobili blindate o giubbetti antiproiettile, non a caso resa nota in anticipo, e sulla quale ha scherzato con i giornalisti alla partenza per l’Africa, dicendo di temere solo le zanzare. È importante ricordare che alla vigilia della sua partenza il papa aveva sentenziato «maledetti coloro che fanno le guerre» durante un’omelia nella cappella della sua residenza a Santa Marta, in Vaticano. Sta di fatto che durante il suo viaggio apostolico, da papa Francesco è arrivata la condanna del terrorismo è arrivata sempre insieme a quella della guerra e alla denuncia del commercio e del traffico di armi, dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e degli squilibri sociali, e all’appello alle religioni a essere operatrici di pace e di unità e non strumenti di conflitto e divisioni.
«La guerra è un affare, un affare grande. “Il bilancio va male? Facciamo una guerra”. Dietro ci sono interessi, vendita di armi, potere», ha detto ai giornalisti sull’aereo che lo riportava a Roma. Una cosa è certa: se l’apertura della Porta Santa a Bangui, nella sua concretezza di gesto dalla triplice valenza pastorale, sociale e politica, è stato l’evento principe di questo viaggio apostolico, il tema chiave dei sei giorni trascorsi in Africa è stato quello della pace, conditio sine qua non per innescare i processi di cambiamento necessari al progresso e allo sviluppo dei popoli. Papa Francesco – ponendosi durante l’intero viaggio sempre e comunquea fianco dei poveri , col cuore e con la mente, – non ha mai mancato l’occasione per illustrare con chiarezza i «fondamentali» del suo pensiero, teologico e pastorale, non solo negli incontri con i religiosi, ma in quelli con i la popolazione, soprattutto con i giovani, e con i rappresentanti politici e istituzionali. Il suo compito, legato al ministero petrino, di confermare spiritualmente le Chiese visitate, si è tradotto in un aiuto a interpretare i segni dei tempi. Una scrutatio legata alle molte sfide di un continente che ha decisamente voglia di riscatto, nonostante le croniche manchevolezze che penalizzano fortemente i ceti meno abbienti. Soprattutto in Africa, infatti, il tema dell’esclusione sociale è legato fortemente all’iniqua distribuzione della ricchezza; un fattore altamente destabilizzante che finora ha vanificato gli sforzi per affermare l’agognato sviluppo e che ha lasciato campo libero ai «signori della guerra», favoriti da una spesso manifesta connivenza dei grandi potentati economici e finanziari internazionali. In un frangente dello storia umana in cui le classi dirigenti a livello planetario ostentano una imbarazzante grettezza di fronte alle istanze di liberazione di una moltitudine di popoli oppressi, papa Francesco appare davvero l’unico leader mondiale in grado di dare voce a chi non ha voce. Non solo proponendo un’agenda perspicace e illuminata sulla «casa comune» – dunque andando oltre le ormai croniche miopie determinate dagli «stati-nazione» – ma soprattutto infondendo una speranza, davvero palpabile nei volti delle masse impoverite che ha incontrato. Un’empatia, la sua, manifestata col cuore e con la mente a tutti i poveri del mondo. A pensarci bene, questo è davvero il messaggio de Santo Natale, dell’Emmanuele, «Il Dio con noi».
Padre Giulio Albanese per Condividere