Riproponiamo questa testimonianza che il procuratore aggiunto della Procura di Palermo, Dino Petralia, scrisse per Condividere, nel maggio del 2013.
Dodici anni di servizio a Trapani, fino al ‘78, prima come sostituto procuratore e poi da giudice, bastarono già per classificarlo come un magistrato eccezionale. Primo nel lavoro, primo in qualità e puntualità. Riservato ma non schivo, acuto e semplice insieme. Gli anziani del Tribunale ne ricordano ancora oggi il ritmo serrato con cui pure d’estate, durante le ferie, scriveva e depositava sentenze e poi correva al mare, a San Giuliano, a tuffarsi in lunghe nuotate. Anche da solo. Una piccola selezionata cerchia di amici nel dopolavoro, non colleghi ma gente che lo sapesse far ridere e che lui riuscisse a far ridere. Sereno e amato. Non perché Falcone, ma perché Giovanni; un campione di professionalità ma anche – difficile a crederlo, facile a sorprendersi, attraente ad abituarsi – un semplice compagno di battute, di barzellette, di goliardia spicciola, scacciapensieri.
Poi gli anni palermitani, il passaggio traumatico da un microcosmo affettivo ad un contesto pieno di diffidenze. Una sfida che Falcone seppe raccogliere con l’umiltà dell’esempio che nasce dall’impegno e che lo portò presto all’Ufficio Istruzione, al cospetto dei flussi criminali e mafiosi della Palermo del sacco edilizio e del grande narcotraffico. Una Palermo che da subito iniziò a mal tollerare la decisa intraprendenza di questo magistrato tenace. L’ascesa professionale con i primi risultati processuali contro “Cosa Nostra” non fu un’ascesa di carriera, ma di autorevolezza e di supremazia dell’uomo e dell’inquirente: come un vero e proprio scienziato, Falcone scoprì “Cosa Nostra”, ne portò alla luce i circuiti interni, i codici e le strategie, riuscì a snidare la collaborazione di mafiosi di rango fratturando la secolare compattezza degli uomini d’onore.
Cambiarono le leggi, fiorirono i maxiprocessi, la comunità internazionale ne fece un simbolo antimafia e l’Italia del risveglio e della legalità s’identificò con Giovanni Falcone. Iniziò però a svelarsi la faccia corrotta del potere. A tutti i livelli. Gli fu negato l’accesso al Consiglio Superiore della Magistratura e alla Direzione Nazionale Antimafia che lui stesso aveva concepito e attuato e che fino ad oggi, con le Direzioni Distrettuali Antimafia, assicura i risultati che tutti vediamo. Sono passati tanti anni dalla strage di Capaci e solo una memoria riconoscente e vigile può riscattarne l’orrore e il sacrificio.
Dino Petralia, procuratore aggiunto presso la Procura di Palermo