Amo il mare. Mi affascina la vista del mare aperto. Quello che i Greci chiamano πόντος o πέλαγος. Non è certamente privo di significato il fatto che la parola greca πόντος, entrata nella lingua latina col termine pontus, abbia la stessa radice di pons, parola latina che significa ponte, “luogo di passaggio”. Per gli antichi Greci il ponte era rappresentato proprio dal mare, navigando per tutto il Mediterraneo. Il mare è un veicolo di genti e anche per me unisce, non divide e separa. Ma il mare genera mille emozioni.
La vista del mare aperto può suscitare, accanto al sentimento dell’attesa e della speranza, anche quello della paura, così come quello della nostalgia, del dolore provocato dalla lontananza, dalla separazione. Sedici ragazzi siciliani (tra Rover e Scolte) abbiamo cercato di comprendere tali emozioni e abbiamo osservato quali sono le dinamiche di questa immane tragedia che si consuma “in mare”. Siamo stati accolti da chi ha scelto il mare come professione: gli uomini della Marina ci hanno ricevuti sulla nave Libra, in prima fila nella tragedia del 3 ottobre. I lampedusani, che sanno cosa significa raggiungere la propria isola con una barca, sanno quante miglia è distante dal resto dell’Italia e dell’Europa, per questo si immedesimano nei migranti e li compatiscono; non si sono mai tirati indietro. Hanno accolto tutti coloro che cercavano riparo.
Testimonianza della bontà degli isolani è il pescatore Costantino, che insieme alla moglie Rosa ha salvato la vita a 12 ragazzi, i quali sono diventati veri e propri “figli” nel periodo di permanenza sull’isola. «Lampedusa, più vicina all’Africa che all’Europa è un luogo piccolo che accoglie una umanità tanto varia, con diversi e complementari interessi legati all’uomo, alla migrazione, alla bellezza e alla difficoltà dell’incontro con l’altro e il differente da sé», ha detto don Mimmo Zambito, parroco di Lampedusa dall’ottobre del 2013.
Lampedusa è il crocevia di speranze e di morte. Pietro Bartolo è medico di Lampedusa da 25 anni: lui ha maturato la consapevolezza che l’emozione non può risolversi in un pianto che pulisce le coscienze. È necessario che chi sostiene e dichiara di aver provato emozione e dolore, sia ora capace di volgere il proprio sguardo e la propria azione in direzioni non miopi e ambigue. Non limitiamoci a parlare del mare, delle barche, dei salvataggi o dei naufragi. Onoriamone dolore e dignità, ma poi capiamo che non sta lì il centro della questione. «Non è necessario il Nobel a Lampedusa per quanto si presta a fare, perché ciò rientra nella normalità» ha detto il sindaco Giusy Nicolini. Se non vogliamo che sia così, impariamo a superare i limiti, altrimenti l’unico terreno di confronto sarà tra chi vuole muri e chi li vuole abbattere. Il problema non sta a Lampedusa o a Idomeni. Sta lì da dove partono e lì dove arrivano i viaggi. Lì dove è possibile conoscere i migranti non come numeri, ma come essere umani. Lì dove è possibile provare a costruire con loro risposte a esigenze. È questo che chiediamo all’Europa. È questo che pretendiamo dall’Europa.
Chiara Scalisi per Condividere