[DIETRO LE SBARRE] Storie e volti diversi: l’incapacità della legge di porsi nella differenza

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Parlare di giustizia (le­gale – giudiziaria) da cappellano delle car­ceri è una questione di parti­colare delicatezza, a causa di quell’imbarazzante senso d’impotenza che tradisce la sua costitutiva incapacità di mediare il “grido” del carce­rato. Il detenuto piuttosto ricerca la restituzione a sé stesso, la piena reintegrazione della dignità umana smarrita, nonostante gli errori che abbia commesso. Nella Scrittura, il grido di Israele, ascol­tato, invece, da Dio, è divenuto tradizione paradigmatica di possi­bilità di liberazione: esso, infatti, è la causa dell’azione liberatoria di Dio a favore dell’uomo da ogni sua forma di schiavitù. La ricezione della stessa legge data da Dio a Mosè, donata come espressione di quella paternità di Dio che vuole per i tutti i suoi figli una vita li­bera, secondo quella condizione umana di nudità prima della ca­duta, narrata nel libro della Ge­nesi, invece, è stata recepita e vissuta dagli uomini come limite, regola e confine secondo l’egida sopprimente, dimensione etico-comportamentale, esiliando in questo modo la nostalgia di Dio. Aver smarrito il senso di Dio come ragione profonda del dono della legge, data perché questa educasse l’uomo nella possibilità di vivere a sua immagine, ha provocato in lui la scelta di averla intesa nella per­versa costrizione etico-comporta­mentale senza alcuna curanza del suo sentire atteggiamento inte­riore.

Si evidenzia dunque un con­trasto tra il fuori e il dentro del sentire dell’uomo le proprie azioni. Fra l’uomo e il sentire il giusto, o l’ingiusto delle proprie azioni, è posto quel confine, in cui situandosi le azioni commesse, si inserisce la legge giudicante. Non lontani dalla prospettiva biblica, la legge dello stato (democratico) assolve il compito di guardare al­l’azione commessa, più che alle ra­gioni di essa, ad esempio, la povertà o una possibile forma di schiavitù, che ne hanno provocato le scelte e i comportamenti di chi ora si trova in detenzione. Questa incapacità della legge di cogliere e di porsi nella differenza delle sto­rie, dei volti, delle motivazioni di chi delinque, appare come costitu­tiva la sua azione giudicante e con­segna drammaticamente il detenuto a ciò che sembra para­dossalmente la giustizia della legge, “l’uguaglianza di giudizio”, e che invece è la sua contraddi­zione. L’espressione affissa nei tri­bunali, la legge è uguale per tutti, evidenzia questa incapacità costi­tutiva, che non le consente di fare una autentica azione di giustizia della separazione tra l’essere colpevole e vittima allo stesso tempo.

La legge cessa di essere criterio di giustizia quando riduce la persona al reato commesso. Il compito e la missione del cappellano, che entra e vive il suo ministero di salvezza dentro i luoghi di detenzione, che sono troppo spesso conniventi con esperienze disumanizzanti silenti e nascoste, è posto in una tensione tra la logica punitiva carceraria e la possibilità di riscatto evangelico della sua ulteriorità per la quale nessun uomo può essere ridotto al suo reato. Per un cappellano è di­sarmante riconoscere come il Van­gelo lo costringa a ripensarsi dinanzi alla sacralità di ogni sto­ria, aldilà delle colpe commesse, spinto a guardare, con uno sguardo non secondo la logica di questo mondo, a quell’uomo-car­cerato nascosto e catturato nella solitudine delle sue ferite, ricono­sciute come segno e memoria delle stesse piaghe del Risorto, dove è rivelata un’altra logica, scandalo per i giudei stoltezza per i greci (1 Cor 1,22-23), riflesso della nudità genesiaca di chi non ha smesso di gridare quel desiderio di essere ri­ scattato da una legge, capace di restituirgli la libertà nell’unica ap­partenenza all’umanità. In una so­cietà orientata a pensarsi in una frammentata pluralità di apparte­nenze, che scadono in pregiudizie­voli giudizi della banale differenza tra buoni e cattivi, viene meno il giudizio che sa guardare all’uni­cità di ogni singolarità. Da ciò ne consegue la vincolante scelta di una appartenenza forzata che spesso, per ragione di difesa, mette a tacere il desiderio di chi delinque in un possibile esodo di liberazione.

don Carlo Cinciabella per Condividere
cappellano carcere Malaspina di Palermo

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