“La lotta alla mafia deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” (Paolo Borsellino). Il breve richiamo di questa espressione del magistrato rievoca la speranza di una danza collettiva della coscienza comune, dell’umano che è in comune, dell’umano che è bene comune, speranza di popolo. Dignità di popolo. L’abitudine di un popolo si chiama coscienza collettiva. È al livello di coscienza che Paolo Borsellino pone la sfida della cultura libera. La libertà di coscienza è il vero campo di opposizione alla cultura della morte, al compromesso morale, al mistero dell’iniquità. L’uomo è libero oppure è complice. Non esiste via di mezzo nella coscienza. La coscienza è libera solo se per il bene, se invece rifiuta il bene, è complice, è compromessa, è corrotta. È sporca, puzza. La coscienza non è libera tra bene e male, è libera solo se per il bene, questo per Paolo, lo stesso per il Vangelo. È il peso drammatico della libertà di coscienza, nessuno si senta escluso. Insegna il Vaticano II, nella GS al n. 16: dignità della coscienza morale.

«Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato».

La scelta è fra il profumo e la puzza. Questa espressione ricorda quanto affermato da Papa Francesco a Napoli il 21 marzo scorso: «È una sfida bella, forte di una cultura di vita: non lasciare mai che il male abbia l’ultima parola. È la speranza, lo sapete bene, questo grande patrimonio, questa “leva dell’anima”, tanto preziosa, ma anche esposta ad assalti e ruberie. […]. Lo sappiamo, chi prende volontariamente la via del male ruba un pezzo di speranza, guadagna qualcosina ma ruba speranza a sé stesso, agli altri, alla società. La via del male è una via che ruba sempre speranza, la ruba anche alla gente onesta e laboriosa, e anche alla buona fama della città, alla sua economia. […]. Il percorso di speranza per i bambini – questi che sono qui e per tutti – è prima di tutto e l’educazione, ma una vera educazione, il percorso di educare per un futuro: questo previene e aiuta ad andare avanti. Il giudice ha detto una parola che io vorrei riprendere, una parola che si usa molto oggi, il giudice ha detto “corruzione”. Ma, ditemi, se noi chiudiamo la porta ai migranti, se noi togliamo il lavoro e la dignità alla gente, come si chiama questo? Si chiama corruzione e tutti noi abbiamo la possibilità di essere corrotti, nessuno di noi può dire: “io non sarò mai corrotto”. No! E’ una tentazione, è uno scivolare verso gli affari facili, verso la delinquenza, verso i reati, verso lo sfruttamento delle persone. Quanta corruzione c’è nel mondo! E’ una parola brutta, se ci pensiamo un po’. Perché una cosa corrotta è una cosa sporca! Se noi troviamo un animale morto che si sta corrompendo, che è “corrotto”, è brutto e puzza anche. La corruzione puzza! La società corrotta puzza! Un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza!»
Vorrei coniugare per un attimo la bellezza del profumo nel vissuto quotidiano semplice, vorrei indicare per un solo frammento di graziosità, accanto alla via della giustizia e della legalità, spesso segnata dal rosso del martirio e del sacrificio, appunto la via dei martiri, accanto ad essa quella che sorge, forse appare, come luce, come alba, come speranza, come danza, come nuova abitudine, come la via dei semplici. La terra di Sicilia, la nostra terra, è fatta da tanta gente semplice, onesta, buona, che costruisce la storia segreta di un popolo, che edifica la coscienza comune del bene, che non fa rumore e che purtroppo non crea opinione. Il profumo è un’arte. Si tratta di riconoscere nelle piante, negli alberi, nella natura, delle essenze e di estrarle, cioè di liberarle, e poi ricomporle in modo da poter essere gustate, riconosciute, quasi indossate, ma non possedute, non sfruttate. Il profumo è gratuito, resta libero, riveste ma non possiede e non si lascia imprigionare. Soprattutto riempie senza escludere e senza estromettere. Il profumo è bellezza. Il profumo è graziosità. Il profumo è gradevole. Il profumo non è il fumo, non è vuoto, è essenza, arriva prima dell’essenziale, e ti rivela la sua gratuità e la sua verità. Il profumo è la bellezza della verità.

Il profumo semplice della terra, della campagna, profumo di lavoro, di schiena piegata e piagata, con dignità, né per paura, né per schiavitù, che conosce l’onore del lavoro quotidiano e del sacrificio, che fa del sudore e del pianto il lavacro sacro di ogni famiglia. È il profumo degli umili, che accompagna come carezza le mani rudi scavate e indurite di conosce il peso e la fatica della terra. È il profumo del sacrificio. Il profumo semplice del pane, del cotto, profumo di casa e di preparazione, che rivela l’attesa e il desiderio, la speranza di far sentire l’altro che ritorna come amato, come custodito, come importante. L’odore, essenza del cibo, ti raggiunge e ti fa esclamare “buono!”, è il liberarsi della bontà che ti aspetta e si prende cura di te. Non è semplicemente mangiare, è nutrirsi, è fare comunione, è amore, è capacità di prendersi cura. La nostra gente ama ripetere con una sapienza antica e nuova: è buono come il pane. Chi non è buono non profuma ma puzza. Il pane non onesto, il pane non sudato, il pane rubato, il pane ammuffito, non può essere dato ai nostri figli.

Il profumo semplice dei fiori, dei campi, dei giardini, il senso di primavera, la percezione dei colori, il calore della luce, riempiono di pace il sentire interiore di ogni persona. La gratuità del profumo di primavera dice e racconta la preziosità e la fragilità della pace, del sentirsi in pace, del sentirsi in pace con la propria coscienza. La luce della coscienza è la guida di ognuno di noi. È una luce gentile che mostra ogni cosa in chiarezza e in carità. Gesù stesso guarda i gigli dei campi e gli uccelli del cielo e riconosce grazie ad essi, in coscienza, la bellezza e la provvidenza di Dio, Padre e Madre. Avere la coscienza in pace permette di dormire sereni, di non vergognarsi, di non mentire a se stessi, di vivere nella luce come figli del giorno. È il profumo della luce quello che apre le coscienze.

Il profumo del bagno, della pulizia. Le nostre mamme, nella casa di ogni figlio siciliano, amano ripetere o sentirsi dire: c’è un bel profumo di pulito! È veramente la differenza sostanziale, irriducibile, con la puzza dello sporco, direbbe papa Francesco di ogni forma di corruzione e di malavita. La pulizia chiede un duplice impegno: l’azione e la custodia. L’azione avviene periodicamente, secondo i ritmi di vita e di impegni, e legata alla fatica del quotidiano e alla responsabilità della propria condizione. Il viaggiare, il lavorare nei campi, la scuola, il lavorare in mare, il lavorare negli uffici, il lavoro domestico, il lavoro scolastico, chiedono fatiche diverse, responsabilità diverse, e momenti di pulizia diversi alla fine della giornata. È la vita concreta che chiede le condizioni della propria pulizia. Maggiore è la fatica, maggiore deve essere l’abitudine della pulizia. Poi c’è la custodia, ovvero la capacità di non sporcarsi e di non sporcare nelle proprie responsabilità. È l’atteggiamento della vigilanza e della prudenza. Quella che papa Francesco chiama capacità di resistere e di lottare con la tentazione. Ad esempio in Sicilia è così forte la tentazione del potere! Restare puliti dal potere, facendo del bene comune un servizio, è così difficile! La vigilanza e la prudenza conducono anch’esse ad una duplice azione di coscienza e di corresponsabilità: l’esame di coscienza e la correzione fraterna. Il bene non si custodisce mai da soli. È impossibile. La tentazione non la si vince mai da soli, siamo deboli. Ed ecco che la pulizia necessita di quella meravigliosa esperienza della fraternità (valore anche della rivoluzione francese scomparso dai libri di storia e di filosofia). Non c’è bene autenticamente umano, che dunque faccia profumo di pulito, senza la fraternità. È la fraternità corresponsabile che fa profumo di pulito. Contrariamente dalle associazioni di complicità che fanno puzza di sporco.
Infine il profumo più bello: l’odore dei figli, ovvero l’odore della vita. Nessun bene è più prezioso. Ogni genitore riconosce i propri figli dal loro odore. Soprattutto i bambini sprigionano con forza l’odore della vita. Mi viene con forza l’immagine evangelica del bambino di Nazareth deposto nella mangiatoia. Del profumo di quel bambino, del profumo di ogni bambino, del profumo del mio bambino, del profumo di mio figlio. Maria aveva capito bene il suo ruolo fin da quando si era vista condotta dalla Provvidenza a partorire lontano dal suo paese, lì a Betlemme: che vuol dire, appunto, casa del pane. Per questo, nella notte del rifiuto, ha usato la mangiatoia come il canestro di una mensa. Quasi per anticipare, con quel gesto profetico, l’invito che Gesù, nella notte del tradimento, avrebbe rivolto al mondo intero: «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». Maria, portatrice di pane, dunque. E non solo di quello spirituale. Deformeremmo la sua figura se la sottraessimo alla preoccupazione umana di chi si affatica per non lasciare vuota la mensa di casa sua. Sì, ella ha tribolato per il pane materiale. E qualche volta, quando non riusciva a procurarselo, forse avrà pianto in segreto. Come quell’altra Maria, povera donna, che abita in un sottano con una nidiata di figli e col marito disoccupato, e, per insolvenza, non le fanno più credito neppure al negozio di generi alimentari. Gesù deve aver letto negli occhi splendenti di sua madre il tormento del pane quando manca, e l’estasi del suo aroma quando, caldo di cenere, si sbriciola sulla tovaglia in un arcipelago di croste. Per questo c’è nel Vangelo tanto tripudio di pane, che dividendosi si moltiplica, e passando di mano in mano sazia la fame dei poveri adagiati sull’erba, e trabocca nella rimanenza di dodici sporte. Per questo, al centro della preghiera da rivolgere al Padre, Gesù ha inserito la richiesta del pane quotidiano,pane di sudore e non di rendita.
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Chiudo con un frammento di una splendida preghiera di don Tonino Bello, vescovo e profeta del Sud, come Paolo. «Santa Maria, donna del pane, tu che hai vissuto la sofferenza di quanti lottano per sopravvivere, svelaci il senso dell’ allucinante aritmetica della miseria, con la quale i popoli del Sud un giorno ci presenteranno il conto davanti al tribunale di Dio. Abbi misericordia dei milioni di esseri umani decimati dalla fame. Rendici sensibili alla provocazione del loro grido. Non risparmiarci le inquietudini dinanzi alle scene di bambini che la morte coglie tragicamente attaccati ad aridi seni materni. E ogni pezzo di pane che ci sopravanza metta in crisi la nostra fiducia sull’ attuale ordinamento economico, che sembra garantire solo le ragioni dei più forti. Tu, la cui immagine, quasi fosse un amuleto, pietà di madre o tenerezza di sposa nasconde furtivamente nel bagaglio dell’ emigrante o nella valigia di chi affida al mare la sua vita in cerca di fortuna, tempera le lacrime dei poveri ai quali è divenuta troppo amara la terra natale. Alleggerisci la loro solitudine. Non esporli all’umiliazione del rifiuto. Colora di speranza le attese dei disoccupati. E raffrena l’egoismo di chi si è già comodamente sistemato al banchetto della vita. Perché non sono i coperti che mancano sulla mensa. Sono i posti in più che non si vogliono aggiungere a tavola. Santa Maria, donna del pane, da chi se non da te, nei giorni dell’abbondanza con gratitudine, e nelle lunghe sere delle ristrettezze con fiducia, accanto al focolare che crepitava senza schiuma di pentole, Gesù può aver appreso quella frase del Deuteronomio, con cui il tentatore sarebbe stato scornato nel deserto: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»? Ripeticela, quella frase, perché la dimentichiamo facilmente. Facci capire che il pane non è tutto. Che i conti in banca non bastano a renderci contenti. Che la tavola piena di vivande non sazia, se il cuore è vuoto di verità. Che se manca la pace dell’anima, anche i cibi più raffinati san privi di sapori. Perciò, quando ci vedi brancolare insoddisfatti attorno alle nostre dispense stracolme di beni, muoviti a compassione di noi, placa il nostro bisogno di felicità, e torna a deporre nella mangiatoia, come quella notte facesti a Betlemme, il pane vivo disceso dal cielo. Perché solo chi mangia di quel pane non avrà più fame in eterno».
don Vito Impellizzeri
(L’autore di questo servizio domenica 19 luglio, alle ore 10, ha presieduto la santa messa in memoria di Paolo Borsellino e dei ragazzi della scorta, presso la piccola chiesa di Kamma a Pantelleria, alla presenza delle figlie di Borsellino, Lucia e Fiammetta)
Grazie Vito, bellissime e toccanti le tue riflessioni…quasi da farci un intero anno di pastorale per tutti!