«Tra gli altri doni che ricevemmo e ogni giorno riceviamo dal nostro Donatore, il Padre delle misericordie, per i quali dobbiamo maggiormente rendere grazie allo stesso glorioso Padre, c’è la nostra vocazione». Così esordisce la nostra madre santa Chiara nel suo Testamento, interpretando la vocazione anzitutto come dono del Padre, cui siamo tenute a rendere grazie e, solo in un secondo momento, come nostra personale risposta. Sì, ogni vocazione, e nello specifico quella di speciale consacrazione, è principalmente un dono di grazia che si inserisce nel più ampio dono della consacrazione battesimale. Così mi piace considerare l’inizio della mia vocazione, in quell’ormai lontana notte di Pasqua in cui, appena ricevuto il dono della vita, ricevevo quello del santo Battesimo che mi imprimeva il sigillo dello Spirito Santo rendendomi, in Cristo, figlia del Padre. Tutto mi era già stato dato in grazia: il dono della fede, da formare e nutrire, e il piccolo seme della vocazione, nascosto e silente, tutto da scoprire, accogliere e sviluppare.
L’educazione cristiana ricevuta in famiglia mi aiutò da bambina ad instaurare una relazione di fede semplice e genuina col Padre, cui parlavo confidando i miei piccoli segreti e da cui mi sentivo profondamente amata. L’età adolescenziale segnò una svolta nel mio cammino, facendomi assumere un atteggiamento molto critico nei confronti di una fede che sentivo imposta e non scelta e, soprattutto, nei confronti della Chiesa che non consideravo più depositaria della fede e della grazia sacramentale e da cui ben presto mi allontanai, rifiutandomi di partecipare a qualsiasi celebrazione liturgica. Illudendomi di andare da sola alla ricerca della Verità, mi distaccai, in realtà, da ogni cammino spirituale per inseguire solo i miei sogni e progetti umani.
Per anni tutto procedeva secondo i miei programmi, finché, giovane universitaria, mi ritrovai nel baratro del non senso: tutto ciò che facevo e ambiziosamente inseguivo aveva perso il mordente; la stessa vita non mi sorrideva più con i molteplici colori delle sue stagioni, ma mi mostrava solo una squallida e monotona stagione invernale. Questo fu il preludio di una rinascita: si erano create in me le disposizioni interiori che aprirono il mio cuore all’incontro decisivo della mia vita, quello con Gesù Cristo. Fu l’incontro con una Persona viva e vera che fece cadere le squame dei miei occhi (cfr. At 9,18), restituendomi la vista e mostrandomi la bellezza della vita con tutti i suoi colori.
Egli riscaldò il mio cuore con un amore mai sperimentato prima, così profondo e sconvolgente che mi fece definitivamente uscire dal gelido inverno. Da quel momento non persi occasione per cercarlo ed ascoltare la sua Parola, nutrendomi quotidianamente alla mensa eucaristica e frequentando assiduamente catechesi e incontri di preghiera. Tutto nella mia vita aveva riacquistato senso, ma, usando le parole di san Paolo, «quelle cose che prima per me erano guadagni, ora a motivo di Cristo, le consideravo una perdita. Anzi, ben presto, tutto ritenni una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale lasciai perdere tutte queste cose al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,7-8) e di vivere in Lui. E così, per divina ispirazione (RsC II,1), sono entrata in monastero con la «volontà di abbracciare la forma di vita delle Sorelle Povere, sforzandomi di osservare il Santo Vangelo del Signore Gesù Cristo vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità» (RsC I,1-2).
Io e le mie sorelle conduciamo una vita molto semplice e nascosta agli occhi del mondo, scandendo e santificando il tempo con la celebrazione della Liturgia delle Ore. La nostra è una vita totalmente dedita al Signore, nella preghiera e nel lavoro, nella solitudine e nella fraternità, in continuo rendimento di grazie, perché tutto venga fatto a lode della sua gloria (Ef 1,12; cfr. 1Cor 10,31). La clausura non è disprezzo del mondo, ma mezzo necessario per favorire e custodire la vita dello Spirito, per abbracciare tutti con le braccia misericordiose di un Padre che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui» (Gv 3,16-17). «Una vita sprecata» (cfr. Mt 26,8) secondo alcuni, ma il primo a sprecarsi per noi è stato proprio Dio e tutto ciò che si spreca per Lui si riversa abbondantemente sul mondo come pioggia di grazia. Per questo Santa Chiara rivolgendosi a S. Agnese osa scriverle: «ti considero collaboratrice di Dio stesso e colei che rialza le membra cadenti del suo corpo ineffabile» (3LAg 8). Una vocazione dunque che, come tutti i doni di Dio, non è solo per me ma per tutta la Chiesa e per il mondo intero. È un dono che dal silenzio grida che l’amore di Cristo rende felici, che «il suo affetto appassiona, la sua contemplazione ristora, la sua benignità sazia, la sua soavità ricolma» (4LAg 10-11); un dono, cioè, che vuole anzitutto testimoniare l’assoluta Bellezza di Dio. Come Pietro sul monte Tabor anche noi possiamo esclamare è bello per noi stare qui! È bello per me stare con Gesù: Egli è mia ricchezza a sufficienza (LodAl 5), mio maestro, mio amico, mio sposo… mio tutto!
Suor Maria dell’Eucaristia, sorella povera – Monastero Santa Maria degli Angeli – Castelbuono (Pa) per Condividere