Davanti ai drammi che si consumano all’interno di relazioni connotate affettivamente, che turbano e interrogano le nostre coscienze e provocano la nostra fede, tutte le parole ci sembrano superflue eppure non possiamo tacere. Non ho la pretesa di interpretare i fenomeni, di analizzarli e trovarne il senso. Non ho il distacco sufficiente e continuo a considerare chi incontro, una persona e non il numero da inserire in una statistica da studiare. Lascio ad altri più qualificati di me questo compito. Io offro solo un piccolo e parziale spunto di riflessione. Questo mio scritto viene pubblicato sulla testata diocesana Condividere. E, forse, proprio questa è la parola da cui potremmo partire. Oggi si ritiene che condividere sia un click sui social: spesso senza neanche leggere un articolo, o senza comprendere il testo, noi “condividiamo”, sicché il successo si misura dal numero dei like e delle condivisioni.
Eppure, tristemente, troppo spesso, dietro migliaia di “amici”, si nascondono migliaia di solitudini. Le relazioni umane nelle famiglie, fra gli amici, fra i colleghi, fra i compagni di scuola, nei gruppi di lavoro, nei quartieri, nelle comunità parrocchiali, dovrebbero essere fondate sulla condivisione accogliente e non giudicante, autentica e solidale. Eppure, le terribili storie di violenza, che oggi più che in altri tempi, irrompono nella nostra quotidianità, sono proprie storie di solitudine, di non condivisione. Un’altra parola è sguardo. Il nostro sguardo narra la direzione, la libertà, il rispetto, la cura che abbiamo per l’altro da noi. Va oltre il vedere, oltre il confine del visibile e si appoggia al cuore e ai battiti di altre vite che, pur diverse, hanno pari diritto di esistere. Poi c’è la parola fragilità. Essere in relazione significa riconoscere le altrui fragilità, farsene carico, proteggerle. Nelle relazioni che sentiamo sicure, noi affidiamo all’altra/ o, le nostre vulnerabilità, la nostra parte più delicata, più trasparente e fragile.
Anche se la relazione si interrompe o muta forma (per esempio una coppia coniugale resta soltanto coppia genitoriale) ciascuno dovrebbe continuare a custodire e proteggere l’altrui fragilità e non usarla per colpire, ferire, uccidere chi gliel’ha affidata. E infine, una parola che tutte le comprende, la parola amore, così abusata e vilipesa eppure così solenne e sacra. Se è vero che l’innamoramento ci sorprende, ci stordisce, ci confonde, è altrettanto vero che l’amore si può imparare, anche l’amore del lasciare andare, quello del non trattenere, del non possedere. E si impara osservandolo, vivendolo, respirandolo. Si impara, facendo spazio per accogliere e per lasciare andare, per sentire di essere parte di un’altra vita senza che quella ci appartenga, provando il desiderio eppure sapendovi rinunciare, esultando per i sì senza crollare sotto il peso dei no. E si impara fin da bambini. Se c’è qualcuno che lo insegna e che ne dà testimonianza in pensieri, parole e opere. Senza più omissioni.
Maria Lisma per Condividere
psicologa