Se anni fa mi avessero detto che avrei dedicato i miei pomeriggi come animatore in un centro di aggregazione giovanile per ragazzi extracomunitari… Sinceramente, avrei sorriso, scuotendo la testa!. Nel mio lavoro ho a che fare coi numeri e poi mi scateno in un campo di pallavolo, gioco e alleno, ma più di ogni altra cosa sento il desiderio di trasmettere che lo sport è vita. Non mi sono mai ritenuto un grande comunicatore; con le parole non ho dimestichezza perché sono timido e mi viene difficile spiegare certe motivazioni, preferisco trasmettere quello che ho dentro con i fatti. Io sento delle “molle” che scattano nella mia testa e, quando una “molla” scatta, io in automatico seguo quell’idea, difficilmente la racconto o me ne vanto. A volte posso passare per “solitario”, ma io in realtà non amo vantarmi.
Sono approdato alla Casa della Comunità Speranza forse perché trascinato da mio fratello. L’inizio non è stato facile, ma non perché sia un ambiente difficile o ostile; semplicemente sono io a sentirmi a disagio. Poi è scattata una di quelle famose “molle”: ero circondato da ragazzi con un potenziale che mai nessuno aveva visto; era un peccato non fare nulla. Così ho iniziato a cercare, proporre, organizzare. Lo sport ha sempre parlato un linguaggio universale, perché non approfittarne? Piano piano, con mille difficoltà (burocratiche, organizzative e soprattutto economiche) sono nate squadre di calcio, calcio a 5 e pallavolo. I risultati? Campioni regionali di calcio a 5. Non sono soddisfazioni? A ogni riunione con i miei “colleghi” ci chiediamo sempre come possiamo essere davvero una alternativa alla strada e spesso ci facciamo prendere dall’amarezza dei fallimenti che comunque ci sono sempre. Alla Casa cerchiamo di offrire ai ragazzi quanti più servizi: laboratori di musica, pittura, giornalismo, cineforum, ovviamente lo sport, la break dance, quest’anno anche l’esperienza teatrale.
A volte sembra che abbiamo le bacchette magiche perché dal nulla riusciamo sempre a trovare qualche risorsa: come operatori siamo insufficienti, i volontari sono pochi, le idee tante, le le richieste tantissime; ma ormai i ragazzi fanno parte della nostra vita e anche se siamo stanchi andiamo avanti lo stesso. Lo ammetto, spesso dico, pure ad alta voce, che voglio gettare la spugna. Poi però, mentre percorro a piedi quel pezzo di strada che dal posteggio mi porta alla Casa, ritrovo bambini che mi corrono incontro per salutarmi, mamme che mi ringraziano e tutto passa. Lo ammetto, non ho studiato per fare questo “lavoro”, ma sono stati i bambini stessi a insegnarmi. Alla fine non è difficile: basta avere un cuore, ascoltarli, condividere con loro tutto, essere i loro amici “grandi”, non raccontare mai bugie, perché ti capiscono al volo, rimproverarli quando serve, ma in ogni caso restare con loro. Per conoscere bene la Casa della Comunità Speranza bisogna viverla: solo così si può capire davvero chi siamo e cosa facciamo, e quando dico “noi” non intendo solo gli operatori, ma anche i ragazzi, perché siamo tutti una vera “casa”.
Antony Ferro per Condividere