Per molti la speranza inizia da lì, da quell’isola che è Europa. Estremo lembo di un continente che da anni, oramai, fa i conti con le migrazioni. Lampedusa in questi anni è stato laboratorio vivente di relazioni umane, di segni concreti di prossimità, di aiuto al fratello, senza guardare colore della pelle e nazionalità. E tra chi, in prima fila, ha dato testimonianza di un’umanità cristiana concreta c’è Pietro Bartolo, medico palermitano che ha scelto come sede di lavoro proprio Lampedusa. La sua esperienza di vita e di lavoro è stata raccontata dal film Fuocoammare ma la giornalista Lidia Tilotta è riuscita – a quattro mani proprio con lui – a raccontarla anche nel libro Lacrime di sale, presentato al teatro comunale “Eliodoro Sollima” di Marsala.
«Un libro che arricchisce, che ci fa capire che non ci saranno muri che possano impedire di scappare da miseria e guerra. Tutti dobbiamo fare la nostra parte, dal semplice cittadino all’Europa» ha detto il sindaco di Marsala, Alberto Di Girolamo. Presenti in teatro il Vescovo e l’ex comandante della Guardia costiera di Lampedusa Antonio Morana («il racconto è un po’ anche la mia storia, con molti fatti accaduti, tanti tristissimi»).
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La coautrice Lidia Tilotta ha letto alcune pagine del libro, poi immagini e testimonianze sullo schermo gigante: le sofferenze di un medico che ispeziona centinaia di cadaveri, la gioia per un malato che guarisce, il suo dolore per chi muore mentre gli dà soccorso, si tatuano sulla pelle dei presenti. «La speranza che qualcosa possa cambiare – ha detto Bartolo – la vedo a cominciare dai lampedusani, dal sentirsi loro il salvagente di un’Europa sorda. Dalle mamme che accorrono con latte e pigiamini quando sanno che c’è stato un parto in barca, a volte con cordone ombelicale legato con lacci di scarpe».
E la speranza di una vita migliore – quella per la quale è giunto qui Lamin («dovevo decidere tra morire sparato in Libia o morire annegato, ho scelto il mare») – è anche nei bambini che ora sono cresciuti e stanno bene. Gift, Favor, Mustafa, hanno perso i loro genitori: ora sono in comunità o hanno una famiglia che li rispettano come persone: «Si, sono persone, è così che li dobbiamo chiamare, non clandestini – ha detto Bartolo – contrastiamo le bugie che si raccontano, non sono terroristi, non portano malattie, possono essere invece una risorsa per tutti noi. La priorità è quella di evitare un genocidio».