Massimo Russo è oggi magistrato nella Procura presso il Tribunale dei minori di Palermo. Originario di Mazara del Vallo, nel Trapanese, Russo per 13 anni è stato applicato presso la Direzione distrettuale antimafia di Palermo, occupandosi della mafia trapanese.
Dottor Russo, da magistrato trapanese, che effetto gli ha fatto sapere che il boss Matteo Messina Denaro si nascondeva a Campobello di Mazara?
«Mi viene da dire: avevamo il latitante in casa e non ce ne siamo accorti! Eppure, che lui stesse nel suo territorio, nel suo fortino, era una prevedibile opzione. E non solo perché un capo di Cosa nostra, di regola, non si allontana dal proprio contesto di riferimento, ma perché era notorio che in quella zona godesse di appoggi e tutele da parte di tanti soggetti, anche non mafiosi, che nel tempo avevano mostrato una vera e propria venerazione nei suoi confronti. Alcuni suoi sostenitori intercettati dicevano: a lu siccu dobbiamo adorarlo, lu bene veni da lui».
La rete più ristretta al boss che gli assicurava protezione, secondo l’indagine dei suoi colleghi, è legata alla famiglia Bonafede di Campobello di Mazara, nei decenni coinvolta quasi sempre in inchiesta antimafia. E il boss per anni ha vissuto indisturbato. Lei che idea si è fatto di tutto questo?
«Ho provato sconcerto, questa è la parola giusta. Quando via via è emerso che viveva a Campobello di Mazara da diversi anni come un normale cittadino, frequentando locali pubblici, strutture sanitarie, muovendosi in auto, comunicando al cellulare, incontrando persone, come i Bonafede, per esempio, ripetutamente nel mirino degli investigatori. Insomma nascondendosi, ma mostrandosi il più possibile, così facendosi, in maniera diabolica, sostanzialmente beffa del colossale apparato investigativo che da 30 anni lo ricercava. Qualcosa non ha funzionato, a cominciare dal controllo del territorio, e bisogna ammetterlo onestamente».
La comunità di Campobello di Mazara è stata accusata di sapere e tacere. Insomma un intero paese considerato omertoso. Ma può essere davvero così?
«Non si può criminalizzare un’intera comunità costituita da tanta gente per bene. Chi non distingue, chi non analizza, chi non vuole comprendere è un miserabile e un vigliacco e fa tanti danni, sul piano culturale, quanti ne ha fatto la stessa mafia, come è purtroppo accaduto nel nostro paese con i tanti salottieri dispensatori di “patenti antimafia”. Ma detto questo, va anche aggiunto che in molti, sicuramente, lo conoscevano. Tante persone della generazione di Matteo Messina Denaro, quelle nate tra il ‘60 e il ‘64, a voler essere rigorosi, che lo hanno incontrato o frequentato sino a quando, nel giugno del ‘93, non si rese latitante, se in questi ultimi anni lo hanno visto, a Campobello come a Mazara del Vallo o Castelvetrano che non sono delle metropoli, lo hanno certamente riconosciuto come si riconosce, dopo decenni, un vecchio compagno di scuola e non soltanto di classe. E ciò perché, sino ad allora, il giovane Matteo era conosciuto soltanto come il figlio di uno dei più importanti mafiosi della zona. E lui ci metteva del suo per farsi platealmente riconoscere dalla gente, scorrazzando tra Castelvetrano e Mazara del Vallo con potenti auto sportive, frequentando bar, ristoranti discoteche, circoli, facendosi notare per il suo abbigliamento, i suoi occhiali, gli orologi pregiati, corteggiando le donne. Insomma, non era certo un tipo che passava inosservato».
E allora perché secondo lei non è stato denunciato?
«Perché si ha comprensibilmente paura. Perché si è alimentata l’idea della sua protezione ad alti livelli sulla base di un semplice ragionamento: se il latitante circola tranquillamente, ed è riconoscibile e nessuno lo arresta, vuol dire che gode di una enorme protezione; quindi è meglio non occuparsi di queste cose. E d’altra parte si è sempre pronti a dire: “a me chi lo fa fare!”. È questo il punto: è mancato il controllo sociale da parte dei cittadini, che dovrebbe essere il naturale sentimento di chi si sente parte di una comunità; è mancato l’adempimento dei basilari doveri di solidarietà previsti dalla nostra Costituzione . È inutile girarci intorno: in molti, a determinate latitudini, non si fidano dello Stato e delle sue istituzioni, a cominciare dalla magistratura e delle Forze di polizia. La normale quotidianità del cittadino latitante Matteo Messina Denaro dice esattamente questo, a prescindere dagli appoggi di cui ha pure potuto godere ma che allo stato sono tutti da dimostrare».
Max Firreri