Se io dico matrioske, a tutti è chiaro di che cosa si tratta: una bambola di legno, che una volta aperta contiene un’altra bambola simile, che poi ne contiene un’altra ancora, e poi di nuovo un’altra. Che l’Islam sia un mondo pieno di mondi, non è mistero per nessuno di noi. L’immagine delle matrioske quindi – se può servire! – serve soltanto per avere appunto un’immagine davanti agli occhi, che sia in grado di ricordarci come l’Islam sia una realtà molto complessa. Spesso, infatti, nella “questione Islam” noi facciamo rientrare problemi giganteschi come migrazioni, profughi e terrorismo, ma anche considerazioni che vanno a braccetto con barbarie, arretratezza, falsità, sospetto.
Al punto tale che mi chiedo se a volte non abbiamo noi stessi indetto una sorta di “guerra santa” contro l’Islam, basata unicamente sull’ignoranza che ne abbiamo: o, per essere meno pessimisti, sulla scarsissima conoscenza alla quale ci siamo fermati. Credo infatti che ci sia un diritto-dovere di conoscenza della realtà in cui viviamo, che non è decisamente né statica né semplice. È assolutamente necessario conoscere; è necessario approfondire, cercare di incontrare, di entrare almeno un po’ nella cultura dell’altro. È necessario porsi domande e cercare risposte. Sono passati 50 anni da Nostra ætate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sul dialogo tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane. Ma dobbiamo essere sinceri nel riconoscere che quanto è detto in quelle poche pagine fa ancora molta fatica a essere recepito in casa cattolica: e non solo dalla base, a volte proprio anche dai “vertici”. Un motivo probabilmente c’è, o forse anche più di uno: il più eclatante tuttavia credo sia proprio la complessità dell’Islam, a cui ho già accennato.
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Diverse provenienze etniche, diverse correnti, da quelle più progressiste e aperte fino ad altre più tradizionaliste e chiuse al confronto, anche diverse sottolineature di ordine teologico ed etico, oltre ad altre distinzioni ancora, fanno della fede e della cultura islamica qualcosa di molto articolato, difficile da comprendere. Non è per passatempo che i cristiani sono chiamati a dialogare; il dialogo è in qualche modo insito nella stessa sostanza di Dio, nel suo DNA. Dobbiamo quindi riscoprire (e al più presto!) la dimensione religiosa del dialogo interreligioso: non è un gioco di parole, è la sottolineatura del fatto che facciamo dialogo (anche) per fede, perché è (anche) uno strumento di trasformazione della persona. La comunità cristiana quindi ha davanti ai suoi occhi – o dovrebbe averla – una questione di fondo: che posto occupa l’Islam dentro il piano di salvezza, rivelato definitivamente in Gesù Cristo?
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Domanda ardua, evidentemente, alla quale non è stata data ancora una risposta precisa. E tuttavia è una domanda urgente, importante: perché l’argomento coinvolge in modo sempre più vasto i nostri operatori pastorali, i catechisti, gli insegnanti di religione e non solo, gli animatori, i preti, i religiosi. In altre parole: come cristiani, cosa dobbiamo credere dei musulmani? Avere un atteggiamento di amicizia e di collaborazione, sta prima di tutto sul livello delle buone maniere, di quella cultura dell’accoglienza di cui la Sicilia è maestra. Ma su un piano di fede, possiamo considerare le amiche e gli amici musulmani anche sorelle e fratelli?, tenendo presente che la parola in sé, fratello, non è semplicemente un intercalare. Nel caso del dialogo tra Islam e Cristianesimo ci sono delle differenze di impostazione teologica molto evidenti. Ciò che identifica i cristiani come tali, cioè la fede in Dio Trinità e in Gesù Cristo vero uomo e vero Dio, è inaccettabile per un musulmano, e allo stesso tempo però è irrinunciabile per un cristiano.
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Si potrebbe pensare, quindi, che il dialogo sia bloccato già in partenza, che la differenza sostanziale sia così grande da eliminare ogni possibilità di incontro. Islam e Cristianesimo riconoscono la loro comune radice in Abramo: anche questo va detto con forza e non va mai sottovalutato. Il punto di partenza è lo stesso, ed è esattamente questo: un punto di partenza. Ad Abramo cioè viene detto di partire e di andare verso la terra che Dio gli mostrerà (Gen 12): Dio “mostrerà” la terra ad Abramo, al futuro. Quanto dura però questo futuro? Quando Dio mostrerà realmente la terra ad Abramo? Rileggendo la storia del grande patriarca, non possiamo non riconoscere che in quella terra Abramo ha sempre vissuto “di passaggio”, senza mai possederla pienamente. Altra cosa sono i suoi figli e i figli dei suoi figli, ma lui, Abramo, ha posseduto soltanto il terreno in cui ha sepolto sua moglie e nel quale poi fu sepolto lui stesso. La costante ricerca di questa terra, la condizione di pellegrino sempre in movimento, la concezione della vita stessa come un cammino continuo caratterizzano Abramo e inevitabilmente sono parte costitutiva di tutti i suoi figli: cristiani e musulmani compresi, e primi fra tutti, evidentemente, gli ebrei.
Mi sembra indispensabile quindi che ci abituiamo e che ci aiutiamo ad accogliere la fede come ricerca. Non solo la fede dell’altro, ma anche la nostra stessa fede è ricerca. E in questo contenitore che è la fede possono rientrare anche molte altre cose: teologia, scritture, arte, cultura, identità, appartenenza. Cosa significa questo però? Accogliere tutto ciò che caratterizza il mio credere come verità assoluta, certamente, ma assoluta per me, e che quindi non può essere imposta ad altri; e allo stesso tempo accogliere la verità creduta dall’altro come altrettanto assoluta e irrinunciabile per lui, così come la mia è irrinunciabile per me. Il dialogo con l’Islam abbia una doppia prospettiva davanti a sé. Da una parte si tratta di una prospettiva di studio. Ogni iniziativa che favorisca la conoscenza reciproca non può che essere benedetta.
Conoscenza dei rispettivi testi sacri, conoscenza delle varie forme di interpretazione e di concretizzazione dei testi stessi, dell’etica che plasma una comunità. In termini concreti: non è detto che ogni musulmano che incontriamo sia disposto a dialogare, e lo sappiamo; ma dobbiamo essere coscienti del fatto che il plurale lo viviamo prima di tutto al nostro interno, ciascuno di noi, ciascuna fede. Dall’altra parte si tratta di una prospettiva di convivenza, di collaborazione e condivisione, chiaramente legata alla precedente. La condivisione della vita, in tutti i suoi aspetti e anche nelle sue difficoltà, porta inevitabilmente a scoprire che la convivenza è tutt’altro che un’utopia. Anzi, porta a costruirla, a desiderarla, a gustarla in modi sempre più veri. Credo che le occasioni non manchino: la scuola, gli ospedali, gli ambienti di lavoro, la piazza del paese, sono tutti dei potenziali luoghi di dialogo, delle officine di incontro e di scambio, di crescita comune. Perché è chiaro: tenere ai propri valori, non vuol dire chiudere la porta di fronte a chi ne ha di diversi. Sostenere i propri valori vuol dire piuttosto lasciarli liberi di incontrarne altri, che nella loro diversità possono addirittura rivelarsi complementari ai miei. Credo che sia questo il vero significato di “cultura”.
don Cristiano Bettega
direttore Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso