La liturgia romana fissò fin dal V secolo la stazione liturgica del Venerdì santo alla basilica di santa Croce in Gerusalemme, vicino al Laterano. Nella città di Roma la basilica era come una riproduzione della Città santa dove i riti del Venerdì di Passione erano sorti in seguito al ritrovamento delle reliquie della Croce al tempo di Costantino. Cirillo di Gerusalemme e la pellegrina Egeria ce ne danno il resoconto. Il cuore della celebrazione consisteva nella venerazione della reliquia della Croce del Signore che veniva posta su una mensa coperta da tovaglia. I diaconi la sorvegliavano perché nessuno, dice Egeria, “ne strappasse con un morso qualche pezzo” nell’atto di baciarla. Tutti infatti la veneravano con il bacio e applicandovi sopra la fronte. Era un rito semplicissimo: nessun canto, nessuna preghiera, tutto si svolgeva in adorante silenzio.
Questo rito semplice venne imitato dappertutto, sia in Oriente che in Occidente, e venne arricchito di preghiere e cerimonie. Il rito papale dell’adorazione della Croce venne introdotto a Roma dai papi greci che si succedettero nel VII secolo sulla cattedra di Pietro. Alcune acclamazioni alla Croce che sono proposte anche dal nostro Messale durante il rito di adorazione hanno origine bizantina: “Dio santo, Dio forte, Dio immortale, abbi pietà di noi”. L’edizione tipica del Messale le riporta in lingua greca.
A questo rito essenziale si aggiunse, nel secolo VIII, la liturgia della Parola, con due letture, un salmo e il canto del Passio secondo Giovanni. Al termine della proclamazione evangelica il Papa se ne tornava in Laterano processionalmente, a piedi scalzi com’era venuto. Non era previsto nessun rito di comunione. Aveva già scritto papa Innocenzo I (401-417): “Lo Sposo è assente, perciò secondo il suggerimento del Signore, si digiuna dal cibo materiale, ma anche da quello spirituale, l’Eucaristia, nell’attesa del suo ritorno”.
Tra questa epoca e il secolo XI furono importati gli altri riti, per lo più drammatizzanti, che si erano sviluppati in Spagna e nelle Gallie e che costituiscono, in gran parte, l’ordinamento attuale della liturgia del Venerdì santo. Anche il Passio drammatizzato da più lettori ha questa origine. Tra questi riti spiccava il canto delle Orazioni solenni sorte in area bizantina e chiamate “Ireniche”; si tratta della forma più antica della cosiddetta “Preghiera dei fedeli” e ubbidisce alla legge che i liturgisti chiamano “della conservazione dell’antico in momenti di alta ritualità”. Le formule attualmente in uso sono state redatte al tempo di san Leone Magno.
Questi riti, nella loro essenzialità, sono stati disposti in maniera coerente con l’ordinamento liturgico rivisto dal Vaticano II e, con l’aggiunta dei riti di comunione, formano l’attuale rituale del Venerdì santo. Nel 1955, con la riforma della Settimana santa voluta da Pio XII, non senza molte discussioni, fu infatti reintrodotta la comunione. Molti liturgisti se ne rammaricano. Di fatto il rischio pastorale è quello di considerare l’Eucaristia non un evento “celebrato”, ma una devozione personale per il corpo eucaristico del Signore, contraddicendo di fatto il significato del giorno aliturgico del venerdì santo, cioè senza celebrazione eucaristica. In tal modo anche l’obiettivo culminante del Triduo pasquale viene sfocato: la partecipazione all’Eucaristia della Veglia pasquale, che celebra il ritorno dello Sposo nel suo corpo glorioso, dopo l’attesa nel desiderio di Lui.
Proprio per questo il Venerdì santo non è considerato dalla liturgia un giorno di lutto, ma un giorno di amorosa contemplazione. La Chiesa infatti celebra la morte vittoriosa del Signore; per ciò parla di “beata” e “gloriosa” passione. L’elemento preponderante dell’azione liturgica è infatti la proclamazione della Parola che la riforma liturgica ha ricollocato al suo posto di preminenza rispetto agli altri riti. Anche i riti di introduzione sono soppressi mentre la prostrazione silenziosa dei ministri è già l’invito ad assumere un atteggiamento contemplativo che prelude all’ascolto.
Il testo di Isaia (52,13-15; 53,1-12), quarto carme del Servo sofferente, è il più ricco e penetrante tra quelli che si sarebbero potuti scegliere per tratteggiare la figura del Messia sofferente. Ma sono le letture neotestamentarie a dare senso pieno alla personalità del servo sofferente, vedendola compiuta nella persona di Cristo. È la lettera agli Ebrei (4,14-16; 5,7-9) ad affermare che non solo il servo sofferente è Cristo, ma che Lui è anche il “sommo sacerdote” cui è dovuta tutta la nostra fedeltà e fiducia. La passione secondo Giovanni, poi, contemplazione essa stessa dei fatti redentivi, fonde i diversi temi come l’ora di Gesù, la sua esaltazione regale, la riunione dei figli dispersi di Dio, in una sintesi di grande ricchezza teologica. Inoltre la Croce è vista da Giovanni come la rivelazione suprema dell’amore del Padre. Su di essa Cristo non patisce una morte rassegnata ma la vive con l’atteggiamento sovrano di colui che conosce il vero senso degli avvenimenti e li accetta liberamente.
La liturgia del Venerdì santo, con questa visione giovannea del Sacrificio pasquale di Cristo, intende mostrare ai fedeli i segni della divinità e della gloria del Signore, soffermandosi più su questo aspetto che sulla descrizione della sofferenza umana. Si può così tranquillamente dire, senza timore di blasfemia, “adorazione della Croce”, in quanto nel Legno si riflette tutta la gloria di Dio che ha scelto ciò che è ignobile per la salvezza del mondo. Da qui il carattere sacerdotale della morte in Croce del Signore: nuovo sacerdozio, nuovo rito, nuova Pasqua, con il prolungamento sacramentale nell’acqua e nel sangue, con l’intimo legame nel dono dello Spirito per la nascita della Chiesa rappresentata da Maria e da Giovanni ai piedi del nuovo altare.
don Leo Di Simone per Condividere