Ritorna a Salemi la festa di San Giuseppe che, con i suoi freschi colori e odori di pane e di murtidda e con la sua ricca ed espressiva ritualità, trasforma e rinnova un’intera città rendendola viva grazie ad una tradizione religiosa unica in tutto il territorio trapanese. La festività di San Giuseppe offre la possibilità di cogliere una dimensione umana che a volte, erroneamente, consideriamo secondaria o superflua ma che invece, essendo parte integrante della nostra natura, ci permette di comprendere l’esperienza umana. Stiamo parlando della dimensione religiosa, dimensione naturale e necessaria inscritta nell’essere umano. Ogni uomo infatti – sostiene lo storico delle religioni Julien Ries nella sua opera “L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro” – è naturaliter religiosus. Ogni atto religioso – dice J. Ries – è la conseguenza dell’essere umano, di un essere impotente e incompiuto e per questo sempre alla ricerca di un senso e di un significato da attribuire alle cose e che, una volta trovatolo, le cose che lo circondano rivelano qualcosa che sta al di là di esse perché diventate simbolo, rimando a qualcos’altro di inafferrabile che non gli appartiene e che non è stato creato da lui. Questa dinamica religiosa, per J. Ries, accomuna ogni uomo e si esprime proprio nelle varie modalità delle religioni, con i suoi riti, preghiere, racconti e simboli.
Dunque – conclude J. Ries – la religiosità porta in sé la relazione con la trascendenza di cui l’uomo stesso è fatto segno e che lo definisce come creatura. La comprensione del senso cristiano della realtà creata è possibile se i caratteri originali dell’homo religiosus vengono integrati con l’intelligenza umana. Proprio grazie all’uso dell’intelligenza il cristianesimo, nella storia, è divenuto migliore modalità per comprendere la realtà e l’uomo stesso, finalmente compreso come persona. La dimensione religiosa della festa di S. Giuseppe affonda le sue radici in quel contesto primitivo e originario del paganesimo, un mondo ricco di simboli e di misteri proprio, come prima dicevamo, perché prodotti dall’uomo per dar un senso alle cose. Il teologo e patrologo gesuita Hugo Rahner, nella sua opera “Miti greci nell’interpretazione cristiana”, sostiene che molti di quei riti e simboli pagani, in un certo modo, continuano ad esistere nel cristianesimo trasfigurati però nel loro significato con la novità di Cristo che veramente da senso nuovo a tutte le cose.
La festa di S. Giuseppe è impregnata da una spontanea ritualità, segno di quel naturale bisogno umano che cerca di dare senso alle cose e questo viene concretizzato con la ricca simbologia dei pani, con la ritualità del banchetto e con la costruzione di una “Cena”. Analizzeremo la ritualità della festa grazie al contribuito che la professoressa salemitana Enza Gandolfo ci ha lasciato con i suoi scritti. Innanzitutto il pane, un cibo caro agli Elimi (popolo proveniente dall’Anatolia e stanziatosi intorno al XIII secolo a.C. nella Sicilia Occidentale) dove a Salemi, citta elima per eccellenza, lo vediamo utilizzato come cibo che come segno religioso. Il simbolismo dei pani esprime il rapporto tra uomo e Dio e richiama le meraviglie del creato, secondo un criterio allegorico e ben definito. I pani della “Cena di S. Giuseppe”, accanto ai centinaia di “panuzzi” a forma di fiori, frutta, ortaggi e animali che pendono tra il fogliame per inneggiare all’abbondanza e alla generosità della terra che ci nutre, hanno un loro preciso significato che vuole essere un tentativo per rappresentare il significato cristiano delle cose.
Particolarmente interessanti sono i tre pani che vengono collocati al centro dell’altare, sono infatti i più importanti perché simboleggiano i membri della Santa Famiglia. U cucciddatu: un grosso pane a forma di sole che simboleggia la luce divina, indica e rappresenta Gesù. E’ tutto decorato con raffigurazioni plastiche che richiamano i simboli della sua infanzia: la camicia che è segno di povertà, i fiori di gelsomino ritenuti i preferiti da Gesù Bambino; e tutti i segni della sua passione e morte: la cuffitedda, che contiene i cunei e la corda che servirono per fissare la croce, il sudario dove fu avvolto, le spighe e l’uva, segno del corpo e del sangue di Cristo e una ‘G’ al centro, circondata da uccelli e fiori. A parma: simbolo della pace, è un pane a forma di palma, dove sono minutamente riprodotti tanti datteri che, secondo una tradizione apocrifa, ricordano il miracolo avvenuto durante la fuga in Egitto, quando, mentre Maria riposava sotto una palma, essa abbassò i rami che le fecero ombra e la sfamarono con i loro datteri; le 12 stelle in cima al pane modellato che rappresentano lo stellario della Madonna; infine tante altre decorazioni attorno a una grande ‘M’.
U vastuni: il bastone di San Giuseppe decorato con una grande ‘G’ al centro e da tanti gigli, il fiore del suo bastone, che rappresentano la purezza, e da pere, mele, uva, assieme ai suoi attrezzi da lavoro. Il ricco simbolismo del banchetto, il pranzo che culmina la giornata dedicata a San Giuseppe, rimanda al banchetto eucaristico e al convito di beneficenza. Nei due giorni precedenti la festa la padrona di casa, sempre aiutata dalle donne del vicinato, parenti ed amici, prepara le vivande per il banchetto rituale che, per tradizione, deve essere ricco e vario. Tutte le pietanze sono cibi poveri e quanto la stagione può offrire, tranne la carne che è vietata nel periodo quaresimale. In tempi recenti si sono aggiunti prodotti d’importazione e pietanze più ricercate per il benessere diffuso, ma nulla è stato tolto alla carica simbolica del rito. Alla tavola per consumare il pranzo siedono tre bambini che simboleggiano Gesù, la Madonna e S. Giuseppe. Il bambino più piccolo taglia una forma di pane benedetto sotto gli occhi attenti di tutti i presenti. Questo è il momento più sentito perché tradizione vuole che la fetta tagliata, “ricca” o “avara”, sia segno della buona o cattiva annata. Si continua con le varie portate, che vengono servite dai padroni di casa e annunciate, di volta in volta, da un rullo di tamburo o dallo scoppio di mortaretti. Il grido osannante “Viva Gesù, Giuseppe e Maria” invita i tre bambini a mangiare tra gli sguardi dei presenti compiaciuti, che accettano un assaggio per devozione.
La “Cena”, tipica della festa salemitana, nasce originariamente come voto di ringraziamento o come propiziazione di una grazia da parte di una persona devota, che si è impegnata con San Giuseppe a fare un convito di beneficenza per tre bambini poveri che rappresentano la Sacra Famiglia. La struttura della “Cena” figurativamente imita una chiesa, al cui interno si erge l’altare dedicato al santo. Si costruisce una struttura in legno (oggi anche in ferro) che viene interamente ricoperta da ramoscelli di alloro e di “murtidda”, elementi ornamentali che hanno un significato propiziatorio. Ultimata la struttura, vi si appendono a decorazione piccoli pani artisticamente lavorati, secondo un ordine ben definito, e arance e limoni appena colti. Al centro, addossato ad una parete interamente rivestita con un drappo bianco, si prepara un piccolo altare con cinque ripiani degradanti, tutti ricoperti di candidi lini ricamati, e si appende in alto un quadro raffigurante la Sacra Famiglia. Ai lati si dispongono delle mensole con bianche tovaglie ricamate su cui si poggeranno oggetti simbolici di significato costante e di facile lettura: caraffe di vino, vasi di fiori, garofani, frutta, fette di grossa anguria di gesso, lumini, candelabri, vasi con pesciolini rossi, arance e limoni alternati al pane. Ai piedi dell’altre si stende un tappeto dove vengono posati un agnello di pane, di gesso o di cartapesta, in riferimento al sacrifico di Cristo, un’anfora con acqua e un bianco asciugamano, disposto a forma di ‘M’, per ricordare la purificazione, dei piatti con germogli di frumento, che inneggiano alla terra.
Una festa quindi, come abbiamo visto, che nasce e si sviluppa nella semplicità dell’ambiente familiare come pia devozione verso un Santo che è particolarmente legato proprio al contesto familiare e contadino. Ed è quest’ambiente che ha permesso un continuum a questa tradizione sino ai giorni nostri, la quale, pur essendo divenuta in questi ultimi vent’anni un evento commerciale e turistico spesso svuotata del suo carattere religioso, continua, anche quando manca “l’evento”, ad esistere nel cuore delle famiglie salemitane proprio perché espressione di quel desiderio di voler dare senso alle cose che è inscritto nella natura di ogni uomo. Quest’anno è la famiglia il soggetto centrale da attenzionare. La famiglia cristiana è una risorsa perché è una “Chiesa domestica”, e potremmo dire che come la “Cena di S. Giuseppe” rimanda alle dinamiche ecclesiali dell’Eucaristia e della comunione così la famiglia è la prima e fondamentale “Cena” che permette di sperimentare veramente le dinamiche ecclesiali non soltanto simbolicamente ma nella loro reale e diretta manifestazione. Giuseppe, il padre terreno di Gesù e sposo di Maria, ha educato Gesù e lo ha cresciuto come buon padre di famiglia, per questo non possiamo festeggiarlo al di fuori della sua famiglia. Pertanto l’occasione di questa festa deve ricordarci e spingerci a dare massima attenzione e solidarietà alle famiglie, con gesti concreti, per permettere dei veri e giusti motivi per poter fare sempre festa.
don Alessandro Palermo