Era l’11 gennaio 2020, la fine delle vacanze natalizie. Io e mio marito abbiamo accompagnato nostro figlio all’aeroporto quando ci disse che il 5 marzo si sarebbe laureato. Non ne sapevamo nulla, fino a quel momento; per pura scaramanzia non si era esposto. Io e mio marito andammo subito in estasi, e dopo pochi giorni dalla sua partenza ci adoperammo per l’evento, prenotando subito un appartamento a Milano per una settimana, così da poter accogliere anche alcuni suoi amici che sapevamo sarebbero venuti per festeggiare la sua tanto sudata laurea. Cosa accadeva a Wuhan era lontano, e noi seguivamo le notizie con un atteggiamento distaccato come se non potesse nuocerci.

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Domenica 23 febbraio in tv non si parlava d’altro. Chiuse alcune città della Lombardia, chiuse le scuole e le università e gli edifici pubblici. Nuove misure restrittive furono imposte per ridurre i contagi. Mentre seguivamo queste notizie al telegiornale mio figlio ci chiamò e ci disse che a causa di tutto questo le lauree sarebbero potute saltare. In quei giorni fui invasa dalla preoccupazione, non per la laurea, ma per la paura che mio figlio rischiasse di non poter tornare a casa. Lo chiamai immediatamente per imporgli di tornare qui; mi feci prendere dal panico e iniziarono i litigi. Lui non voleva darmi ascolto, mi diceva: «Mamma aspetta, non esagerare. Voglio prima capire bene la situazione, capire se posso ancora laurearmi, non posso lasciare Milano scendendo giù in Sicilia e rischiare che magari tutto torni normale e io non riesca a rientrare in tempo per la laurea. In più potrei essere un positivo asintomatico, verrei a contagiarvi tutti. Penso ai nonni, non posso esporli a questo grave rischio! E mi raccomando! State attenti soprattutto a loro!».

Razionalizzando capii le sue ragioni, ma una parte di me, quella irrazionale, quella del cuore di mamma, non era d’accordo. Iniziai a disperarmi, piangevo di nascosto dal resto della mia famiglia. Sono sempre stata ritenuta una persona forte, ma il mio istinto di madre mi faceva perdere il lume della ragione. Diventò tutto tabù tra me e mio figlio, non se ne parlava, lui aveva già deciso. «Mamma, io resto qui, è la cosa giusta da fare, sto bene, starò attento e per favore, ti prego di non parlarne più». La paura non mi faceva vedere l’uomo che era diventato. Serio, responsabile e deciso. A malincuore mi dovetti arrendere, consapevole che aveva ragione. L’Università comunicò che nonostante tutto avrebbero effettuato le proclamazioni dei laureandi, permettendo così agli studenti di continuare il loro iter formativo. Unica nota, le proclamazioni sarebbero avvenute a distanza, via Skype, lontano anche da noi. Mio figlio organizzò tutto e riuscì a renderci partecipi alla proclamazione, tramite una diretta streaming su Instagram; così ci sentimmo uniti nonostante la situazione.

Agata Calandro (al centro) insieme alla sua famiglia.

Con immensa felicità, mista a un’agrodolce malinconia causata dal non poter stare insieme, seguimmo inermi la diretta; le lacrime rigavano i nostri volti; io e mio marito abbiamo gioito insieme a lui, felicissimo, almeno all’apparenza. Mi disse: «Mamma, ce l’ho fatta! Tutto quasi perfetto, per esserlo mancavate solo voi ma vedrai che presto tutto passerà e festeggeremo tutti insieme». Sono trascorse ormai più di due settimane dalla sua laurea, il coronavirus ha invaso il mondo. Chi avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe accaduto tutto questo? Sembra uno di quei film apocalittici.

Mio figlio è ancora a Milano, da solo, le giornate trascorrono con video-chiamate e messaggi dove continuamente ci ripetiamo di essere prudenti, dicendoci che andrà tutto bene e di non preoccuparci eccessivamente. A volte è sereno, ma tante altre volte lo vedo triste. E so che non me lo dirà mai, per non farmi sentire peggio e per non farmi stare in pensiero, anche se io lo leggo chiaramente nei sui occhioni marroni che vorrebbe stare qui. Mio figlio è un eroe. Un eroe armato di buon senso, di responsabilità e di un cuore pieno d’amore per noi.

Agata Calandro per Condividere

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