Erano giorni strani. Primi contagi, zone rosse in quarantena, basso livello di mortalità, rischio di morte solo per anziani e persone con precedenti problemi respiratori. Questi erano i titoli che si leggevano e perciò stavo tranquillo. Il più era tranquillizzare la famiglia. Come spieghi, a distanza, a vent’anni, ai tuoi genitori che sai cosa fare e che devono fidarsi delle tue scelte in una situazione completamente sconosciuta? Messaggi, litigi, videochiamate, rimproveri. Poi ce la fai, alla fine li convinci. Passano altri giorni, ma avevo i miei impegni e non badavo molto alla cosa. Da quel che si diceva era tutto sotto controllo e dovevo laurearmi; ho scelto di fidarmi delle capacità organizzative della mia Nazione. I giorni prima dell’ultimo esame passavano; un’ansia indescrivibile; leggevo e rileggevo tutti i teoremi sulla conduzione elettrica nei tessuti biologici. Avevo il cervello in fiamme. Il momento della pausa era sempre: tisana e news sul coronoavirus.
Fu così per un po’. L’esame è passato e, con esso, la sessione per me e per i miei amici; quel sabato 22 febbraio era il sabato che tutti aspettavamo. Il piano era ben chiaro da settimane, volevamo ben vestirci (“total black”, come Milano comanda), bere del vino o della birra e poi, ciliegina sulla torta, ore a ballare, cantare, ridere e scherzare. Quel giorno stesso per. tutto si fece più serio. I casi aumentavano non solo nelle città blindate, ma anche nel circondario.
Vivo a Milano, centro della Lombardia. A quel punto avevamo tutti ben capito che sarebbe stata una questione di tempo, prima che il virus arrivasse nelle nostre zone. Quel giorno, panico. Non noi eh! Noi stavamo tranquilli. Ma la gente in giro dava di matto. In tutti i negozi erano terminate le scorte di mascherine, guanti e gel disinfettante per le mani. Interi scaffali nei supermercati erano stati completamente svuotati. Non capivo. Ero confuso. Se ci sono così pochi casi, perché sento l’ansia, il panico, la fretta delle persone? Per cosa si stanno preparando? Forse paura, ma per cosa davvero? Dentro di me conservavo sia la parte piena di panico, che quella tranquilla. Avevo seguito la seconda fin a quel momento e, a tratti, iniziavo a chiedermi se fosse stata la scelta giusta. «Prendi il primo biglietto e scendi, non m’importa!», mi ripetevano i genitori. «Non torno giù, non voglio portare questa cosa lì qualora dovessi averla, pensa ai nonni!», lo dicevamo ognuno ai propri cari e sentire queste parole ci confortava. Nessuno voleva rimanere, ma sapevamo essere la scelta giusta. Insieme faceva meno paura. «Se tu resti, resto anch’io».
Emergenza coronavirus. Università chiuse. Tutto chiuso. «E la laurea? E i biglietti aerei? E i treni? Come si richiede il rimborso?, Dobbiamo fare la spesa?». Quattromila domande, ma nessuna risposta. Che potevamo fare? Niente, aspettare. Guardavo il lato positivo. Almeno posso riposare. Stavamo chiusi in casa e la situazione non migliorava. A quel punto molti hanno iniziato a migrare. «Che facciamo? Torniamo?». Guardo i biglietti. Meglio non partire da Bergamo, è più rischioso. Sennò il treno? «Se tu parti, parto anche io», mi dicono gli amici siciliani qui a Milano. Abbiamo tentennato tutti. Alcuni sono tornati dalle proprie famiglie. Non è opinabile l’istinto di tornare dai propri cari per ritrovarsi in un posto sicuro. Davanti a un problema di tale portata, ma soprattutto sconosciuto, nessuna scelta è facile. «Mamma, papà, come posso tornare? Non voglio rischiare prendendo dei mezzi e non voglio rischiare di mettere conseguentemente in pericolo tutti voi. Penso ai nonni. State attenti ai nonni». «Uccide solo i vecchi e la gente che sta già male», qualcuno diceva in giro sui social.
Questa frase mi rimbombava nella testa con impressa l’immagine fissa dei miei nonni. Devo fare ciò che è giusto per me, per la mia famiglia. Non c’è nessun coraggio, nessun eroismo. È stato l’incondizionato amore che provo per i miei cari che mi ha portato a rimanere. Siamo rimasti qui e ci facciamo forza l’un l’altro. Ora siamo lontani, ma indissolubilmente vicini, come sempre. Sperando vicendevolmente che dall’altro lato si stia al sicuro. Speriamo nel minor numero di perdite, siamo fiduciosi che passerà tutto e non vediamo l’ora di riabbracciare i nostri cari.
Domenico Riggio per Condividere