Tredici anni fa in Perù per un’esperienza missionaria, mi colpì in un villaggio sperduto sulle Ande che la gente ci accolse con danze e canti e del cibo. Perchè? Dopo circa un anno di digiuno eucaristico, il sacerdote che era con noi avrebbe finalmente celebrato la messa. Era gente umile e felice, nonostante la fame di Eucaristia, perchè aveva fatto veramente di quell’unica “Comunione” ricevuta durante l’anno il senso di tutta la vita. Questa personale esperienza ha illuminato le mie riflessioni sulle modalità di ritorno alle celebrazioni pubbliche in questa fase 2.

Ci è stato ribadito che essa non corrisponde a un “liberi tutti”, ma a un esperimento di convivenza sociale con il virus, nel quale abituarsi, tra l’altro, a vivere con mascherine, guanti e distanziamenti fisici. Si è molto discusso sul celebrare le messe in sicurezza, con opinioni a favore o contrarie. Premesso che mi discosto da coloro che asseriscono che in una celebrazione eucaristica non può essere possibile rimanere contagiati dal coronavirus, ritengo che parlare di “violazione della libertà di culto” sia stato piuttosto esagerato, soprattutto perchè a noi sacerdoti è sempre stato permesso di celebrare, seppur in forma privata e nella Settimana Santa con la presenza di alcuni fedeli per servizi liturgici che hanno reso la celebrazione più dignitosa.

A chi continua a dire: “perchè i supermercati, le librerie e i tabaccai sono aperti e le chiese no?”, faccio presente che le chiese sono sempre rimaste aperte per la preghiera personale dei fedeli. In ogni caso la partecipazione a una messa non può in alcun modo essere paragonata a una scarrellata tra i corridoi del supermercato o a una fila di gente che aspetta il proprio turno per comprare le sigarette. C’è una dimensione ecclesiale e conviviale dell’Eucaristia, oltre che cultuale, che non possiamo assolutamente mettere in secondo piano. Non si può, infatti, privilegiare la comunione eucaristica a discapito della comunione fraterna. Nè un’assemblea liturgica può imporre di proteggersi o difendersi dal fratello. Infatti, non si tratta di difendersi ma di custodire il fratello. Ovviamente, dato il protrarsi di questa situazione, non è pensabile restare tutto questo tempo senza poter celebrare l’Eucaristia comunitaria.
Bisogna, perciò, che ci adattiamo! Pertanto, con tutto il rispetto per quanto ci sarà indicato dalle autorità competenti, desidero esprimere la mia personale opinione al riguardo, con un interrogativo: perchè non ripartire dalle messe feriali (celebrate in orari adatti per chi lavora e possibilmente garantendone anche due al giorno) in modo da poter gestire la partecipazione dei fedeli con più fluidità e semplicità. Successivamente, avendo preso familiarità con il nuovo stile di partecipazione, si potrebbe riprendere la celebrazione delle messe domenicali, preferibilmente all’aperto in luoghi adiacenti alla parrocchia, anche a motivo della bella stagione. In alternativa, vista la situazione d’emergenza, dispensare provvisoriamente i fedeli dal precetto festivo (termine forse un po’ desueto), come d’altronde è già stato fatto durante la fase 1, e lasciare loro la scelta di una celebrazione feriale nella settimana, compresa la stessa giornata di domenica. Certo, il problema della igienizzazione degli ambienti non è irrilevante, ma potrebbe essere risolto con una buona organizzazione che preveda il coinvolgimento di un certo numero di fedeli.
Queste vogliono essere solo le proposte di un giovane e inesperto parroco, animato dal desiderio di ritorno alla normalità e dall’attenzione alla salute fisica e spirituale del popolo santo di Dio. Peraltro, non condivido l’opinione di chi pensa che l’esperienza della pandemia abbia allontanato i fedeli dal Signore o dalla preghiera. I media e i social network, seppur limitanti come strumenti e mai confrontabili con il contatto umano, sono risultati provvidenziali per noi pastori e, per molti, questa è stata l’opportunità per poterli conoscere e usare per un buon fine. Tanti mi hanno confidato di aver riscoperto la fede proprio grazie a questa opportunità, nella quale la parrocchia (dal greco: parà + oikia, lett. “presso le case”) è entrata nelle case, portando la Parola di Dio, della quale tanti avevano un intenso, seppur implicito, desiderio. E anche se noi sacerdoti abbiamo celebrato la messa nella sofferenza di una insolita solitudine liturgica, mediata solo da uno smartphone che si frappone tra la realtà del Mistero celebrato e uno schermo, tuttavia abbiamo sperimentato che l’Amore di Dio non conosce barriere quando deve fare breccia in un cuore.
La privazione dell’Eucaristia ha accentuato nei nostri fedeli la fame e il desiderio del Pane di vita e ha permesso, paradossalmente, di riscoprirne l’immenso valore. Inoltre, non è da sottovalutare il fatto che la drammatica fame di pane che ha colpito tanti nostri fratelli a causa del lockdown economico, si è provvidenzialmente incrociata con la fame di quel Pane. Ciò ha permesso ai cristiani tutti, abbienti e meno abbienti, di incontrarsi nel medesimo bisogno di un pane spezzato e condiviso, che ci rende tutti fratelli. È questo il vero “miracolo eucaristico” di questi giorni! La meravigliosa generosità e solidarietà di tante persone ha fatto riscoprire un volto di Chiesa quasi dimenticato, dove l’assenza del pane eucaristico e del pane fraterno ha riacceso, tramite la propria vita donata, la forza trasformante dell’amore vicendevole. Ci auguriamo che questi giorni bui lascino in noi e nelle nostre comunità una traccia profonda di luce, coscienti del fatto che bisogna ripartire non solo dalle regole del distanziamento, ma dalla forza vivificante e normante dell’amore.
don Davide Chirco per Condividere