[FOCUS/2] Migranti, la storia di Amin dal Bangladesh alla Sicilia passando per l’inferno Libia

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Quando pensa agli anni – pochi, per fortuna – vissuti in Libia, Amin Alì si intristisce. E, certamente, il racconto non può essere mai come i suoi occhi che hanno visto i comportamenti “disumani” di uomini contro uomini. Ventiquattro anni e un sorriso disarmante, Amin è originario di Meherpur, una città del Bangladesh dove ha vissuto sino a poco più di diciotto anni: «Lavoravo in campagna, badavo agli animali, vendevo i frutti della terra al mercato». Una vita normale fatta di piccole cose per un figlio di una famiglia umile in quelle terre. Il lavoro, innanzitutto: «Ho sempre pensato a impegnarmi e non rimanere a non far nulla», dice Amin. Ecco perché quasi ventenne sognava nuovi posti con un impiego più remunerativo. Per lui, come per tanti altri bangladesi, fuori quella nazione ci stava il mondo conosciuto tramite i passaparola.

«Da amici sentii parlare della Libia: lì c’è lavoro per noi, mi dissero». L’inizio del viaggio è datato 2012. È da qui che inizia la storia di emigrazione per questo giovane del Bangladesh, passato dall’inferno della Libia e finito da alcuni anni in Sicilia, sua terra d’accoglienza e d’adozione. «Decisi di partire per la Libia, era uno dei pochi paesi dove potevamo andare in aereo e poter entrare regolarmente – racconta – mi rivolsi a un’agenzia che organizza tutto, dal viaggio a chi poi lì doveva offrirmi il lavoro. Per pagarmi il viaggio ho venduto 4 mucche, ho dato in affitto un terreno e la mia casa per alcuni mesi». Un totale pari a 3.000 euro per lasciare la propria terra in cerca di fortuna altrove. Ma la Libia per Amin è stato l’inferno. «Inizialmente, per una settimana, ho dormito in un grande magazzino dove c’eravamo più di 200 persone e per entrare ci hanno privato dei documenti ». Poi il viaggio a Zawiya, una città sulla costa, «perché lì mi hanno indicato che avrei trovato lavoro».

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Amin cercava un impiego, guadagnare e inviare i soldi alla sua famiglia, in Bangladesh. Due anni e sei mesi lunghi secoli, durante i quali questo giovane bengalese ha lavorato come netturbino, come domestico e come baby sitter per due bambini di una facoltosa famiglia libica. «Facevo casa e lavoro, perché in quei posti l’alta criminalità spadroneggiava di giorno e di notte – racconta – un giorno davanti ai miei occhi, mentre pulivo la strada, un libico ha sparato contro altre due persone uccidendole». Poi la bomba lanciata contro un deposito di mezzi per la raccolta dei rifiuti: «seppi notizia di 36 persone ustionate e 8 morti e, allora, capii che era giunto il momento di andar via dalla Libia».

Tornare in Bangladesh sarebbe stato difficilissimo. L’Italia, questa sconosciuta per Amin: «Non sapevo neanche dove fosse – spiega – ma qualcuno mi indicò questa strada». Era un aiuto agli occhi di questo giovane bengalese ma, in effetti, erano trafficanti di uomini per i quali le persone sono numeri e profitto. «A Zuar sono stato dentro un magazzino insieme ad altre centinaia di persone per trenta giorni – racconta – in attesa di poter partire. Mi hanno tolto documenti e soldi e mangiavamo una volta sola al giorno». Lo aspettava il mare Mediterraneo, il rischio della morte o, forse, la speranza di una nuova vita. «Una prima sera, per condizioni meteo avverse, la traversata neanche ebbe inizio. la seconda sera tutto andò per il meglio. ci iniziarono a caricare alle 16 del pomeriggio, con una macchina e dieci persone alla volta verso le dune da dove poi, a piedi, dovevamo percorrere un sentiero tra i rovi per mezz’ora. Sulla barca eravamo in 250, gli uomini in stiva e io finii rannicchiato vicino al motore». Dodici ore di navigazione, con un solo bicchiere di thè, prima che una nave della Marina italiana li avvistasse.

Amin con Roberta che l’ha accolto nel suo bar, dove oggi Amin lavora.

«In quel momento capii che eravamo salvi» dice Amin. L’arrivo a Trapani e poi il trasferimento in un centro di Torretta Granitola: «Qui non conoscevo nessuno, per sei mesi non sono uscito dal villaggio» racconta. Prima di trovare chi sono diventati i veri amici, le persone che oggi gli vogliono bene. «Franco e Roberta mi hanno accolto e assunto al loro bar di Tre Fontane, dove oggi lavoro come banconista, la maestra in pensione Nina, invece, mi ha insegnato a scrivere e leggere in italiano. Un affetto dimostrato da chi per me vuol dire tantissimo e che non finirò mai di ricambiare». Storie di emigrazioni, storie di uomini, che vale ancora la pena raccontare.

Max Firreri

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