“L’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù” (Gal 2,16a). Si tratta di una lapidaria e appassionata affermazione di Paolo, che percorre l’intera lettera ai Galati, ma pure quella indirizzata ai cristiani di Roma. L’apostolo combatte con fermezza la convinzione dei Giudei che sia l’obbedienza ai precetti a rendere “giusto” l’uomo. Giudeo per nascita e per formazione, ha vissuto la travolgente esperienza dell’incontro con il Cristo, così intensa da capovolgere ogni sua convinzione. Una luce che lo acceca ma, a un tempo, illumina il senso della Parola di Dio che si snoda nell’Antico Testamento. Comprende così che nessun vivente è giusto davanti a Dio (cfr Sal 143,2); intende la tragedia di Giobbe, uomo giusto che, ciò nonostante, vive e soffre ogni pena e dolore; coglie il dramma di Abramo, cui il Signore ordina di sacrificare Isacco, il figlio della promessa (cfr Gen 17,19b).
Giobbe accoglie il mistero della sofferenza; Abramo non comprende ma, nella fede, obbedisce. Non è la miope giustizia umana la misura della salvezza, ma la giustizia di Dio, che si traduce in “giustificazione”. Si tratta della “sedaqa”, del pareggio dei due piatti della bilancia, sui quali sono posti l’uomo plasmato dalle dita di Dio e l’uomo storico: la stadera però non è più l’obbedienza alla Legge, ma l’accoglienza dello Spirito, mentre l’uomo storico è il Figlio di Dio fatto carne. L’obbedienza alla Legge, in tal modo, sgorga da un cuore giustificato per grazia e non per merito, come aveva già profetizzato Geremia: “Porrò la mia Legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore … Tutti mi conosceranno … poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più il loro peccato (Ger 31,33b.34b). Scriva Dio sul nostro cuore che non sono i rosari, i “nove venerdì”, le novene e nessun’altra pia pratica a meritarci la salvezza, bensì l’accoglienza dello Spirito del Risorto, che ci guida a compiere gesti d’amore.
Erina Ferlito per Condividere