[IL CONFLITTO] «Io, giornalista in guerra, testimone del mio tempo»

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Vedere con i propri occhi la guerra e raccontarla. Trovare il coraggio – «perché la paura c’è» – per conoscere di più, affrontare le difficoltà sfidando anche di andare oltre i limiti di una sicurezza minimamente garantita e poi raccontare la guerra ingiusta, che miete vittime, che porta distruzione. Tra le pagine di questo conflitto che ha segnato già la nostra storia, c’è il lavoro dei giornalisti. È grazie a loro che oggi il mondo conosce cosa sta succedendo in Ucraina: racconti per immagini e testi che suscitano emozioni e che fanno riflettere.

Leonardo Zellino, cronista pugliese, inviato del Tg2, è stato uno dei due unici giornalisti Rai rimasti a Kiev, nei primi 10 giorni di guerra, per raccontare il conflitto. «Due sono le immagini che rimarranno impresse per sempre nella mia mente», racconta ora che è rientrato in Italia. «La prima è quella di quando col collega cameraman Maurizio Calaiò arrivammo in Ucraina. La guerra era già iniziata e ci trovammo a Siret, punto di confine tra Romania e Ucraina, con un flusso infinito di persone che andava in direzione opposta alla nostra. Loro fuggivano dalla guerra e noi con i giubbotti antiproiettile indossati, invece, andavamo incontro al conflitto. In quell’occasione facemmo quasi sette chilometri a piedi perché l’autista che doveva prenderci rimase incastrato nel traffico di mezzi incolonnati per uscire dall’Ucraina».

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L’altro ricordo indelebile per Leonardo Zellino è quello del ritorno, la fuga dai territori in guerra per rientrare in Italia: «Ventisette ore di treno sul convoglio n.67 Kiev-Varsavia che puzzava di affollamento e ferraglia. Di quel viaggio sono vivi in me ancora i volti di donne e bambini. A bordo c’era pure qualche lavoratore straniero che, col passaporto, fuggiva anche lui da Kiev». Volti che raccontano storie e che Leonardo Zellino, nel suo viaggio di rientro, ha raccolto e fatto conoscere ai telespettatori. «Come Yuri, un bambino di 11 anni che con la mamma andavano in Belgio da amici. E poi ancora Gargit, un bimbo di 1 anno e mezzo con una donna a fianco che scopro essere la zia e non la mamma – racconta Zellino – a loro ho chiesto dove stessero andando e mi hanno risposto: “Non lo sappiamo”». Fuga dalle bombe e dalla paura sognando la speranza, «anche per la mamma 88enne di Natalia, una professoressa universitaria al Politecnico di Kiev – racconta ancora il giornalista – col viso segnato da stanchezza e rabbia di lasciare il proprio paese proprio in un momento della vita che dovrebbe riservare serenità».

No, invece. Perché la guerra stravolge e distrugge. «Lo abbiamo visto al fronte, a Irpin, quando sotto i colpi dell’artiglieria pesante russa sono morte tre persone – racconta ancora Zellino – lì ho dovuto raccontare di quell’uccisione ingiusta, facendo vedere pure quella valigia che portavano con sé rimasta integra, una specie di lapide, un “segno” di una speranza di pace che quei tre, che volevano mettersi in salvo, non hanno trovato». Il racconto della quotidianità di una guerra è quello più difficile e spetta ai giornalisti inviati sui territori. «Per me è stata la prima volta nel vivere e raccontare così da vicino un conflitto – dice ancora Zellino – un’esperienza molto forte. Non nego che la paura c’era ma in quei momenti subentra la voglia di testimoniare, di fare il proprio lavoro. Io da giornalista sono testimone del mio tempo. Essere lì ha significato proprio questo», conclude Zellino.

Max Firreri

Leonardo Zellino con l’operatore Maurizio Calaiò.

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