Certe volte viene voglia di decidere cosa fare della propria vita; altri giorni siamo chiamati a sbottonare la camicia modaiola del momento per indossare una divisa bianca troppo lunga per i gusti di una diciottenne e troppo corta per una anziana dama pensionata da due vite sempre lì in prima fila pronta e impaziente ad ascoltare le omelie del Vescovo. Viene voglia di far prendere la giusta piega ai nostri giorni e nonostante ciò abbiamo paura, paura di ciò che potrebbe succedere. «Ci riuscirò?». È la domanda che mi perseguita fin dai tempi bui durante i quali non sapevo se continuare a rinchiudermi in me stessa o mettere tutto nelle sue mani e fidarmi, affidarmi completamente al suo magnifico e misterioso progetto.
Ma soprattutto, «perché?». Perché Dio, oggi, ha deciso di sussurrarmi qualcosa e quel qualcosa si sta pian piano concretizzando in un alternarsi di insicurezze e paure? «Perchè proprio me?». Io ho “vissuto” per ben due volte Lourdes, il suo treno e tutto ciò che si respira in quel luogo incantato, ricco di misericordia e sì, mi manca; mi manca come quando sto nuotando in un fondale e provo a risalire in superficie. Mi manca l’aria e devo risalire per poter respirare e continuare a vivere. Lourdes è quell’aria che riempie i polmoni dopo un’apnea di qualche secondo, ma in questo caso di un anno.
Aspettiamo questo respiro per dodici mesi, ma, in verità, so benissimo di averlo aspettato da una vita, un respiro che me l’ha stravolta, cambiata, resa bella. Scopriamo il volto di Dio nel sorriso di un ammalato o nel pianto di chi batte i pugni sul tavolo perché non vuole tornare a casa. Sul treno c’è una piccola, minuscola cappella, è bello andare a scrivere lì, di notte, in silenzio, quando le dame, i ragazzi, i barellieri, gli ammalati dormono e resto sola col mio confidato quaderno e le brusche curve del capo treno. «Ragazzina, dove sei? Non riesco a vederti!»; «sono qui, signora, proprio davanti a lei, mi guardi»; «ma io non ti vedo, sono cieca».
Lacrime, gela il sangue, tremano le mani, un brivido dietro mi attraversa la schiena. Ho visto un uomo dire “ti amo” alla moglie malata di Alzheimer. Ho visto un ragazzo senza gambe ballare sulla sedia a rotelle come fosse un bambino. Barelle, crisi epilettiche, pianti, sondini nasogastrici, amore, abbracci, fede, conforto, perchè l’Unitalsi è vita, l’Unitalsi sa di vita. Ho imparato a rispettare ogni mio respiro, diamo tutto per scontato. «Dove è discordia ch’io porti la fede». Grazie, Unitalsi.
Angela Galetti per Condividere