Parlare di pesca nella nostra bella isola non è semplice, perché è un settore difficile a causa della durezza del lavoro, della grande crisi che da più di un ventennio lo attraversa, e perché carente di una classa dirigente capace di ribaltare le sorti di centinaia di armatori e di migliaia di lavoratori (tranne qualche piccola eccezione). In Sicilia l’attività marinara si manifesta in tutte le sue peculiarità, utilizzando tutti i tipi di pesca conosciuti e, addirittura, utilizzandone altri inventati, come la pesca con la feluca per il pesce spada, adottata nello Stretto di Messina.

Quelle più diffuse sono il palangaro, lo strascico, la sciabica, il sinaio. Un aspetto particolare è quello che, a pochi chilometri di distanza tra una marineria e l’altra, troviamo tipi di pesca differenti, composizioni di equipaggi diversi. Un’altra peculiarità consiste nella retribuzione dei lavoratori: questi uomini, pur essendo lavoratori dipendenti, non hanno uno stipendio fisso, ma la loro retribuzione viene detta alla “parte”, cioè viene sottratto dal ricavato del pesce venduto, al netto delle spese che sono state fatte proprio per intraprendere una battuta di pesca (che solitamente dura tra i 40 e 60 giorni). La differenza verrà ripartita per metà con l’armatore e l’equipaggio, e tra l’equipaggio rispetto alla qualifica rivestita a bordo del motopesca.

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La pesca si divide in due grandi aree: la prima è costituita da barche che esercitano la pesca artigianale; la seconda si caratterizza da motopesca che esercitano la pesca a strascico che la fa da padrona in termini di fatturato e di numero di addetti impiegati. Questo tipo di pesca, nel tempo, ha creato le condizioni per la pesca industriale. Punta di diamante di questa trasformazione è stata la marineria mazarese che, nel giro di pochi decenni, ha fatto di Mazara del Vallo la capitale della pesca nel Mediterraneo. La città è diventata anche un laboratorio sociale e culturale senza eguali; è riuscita, senza saperlo, a cambiare paradigmi, usi e consuetudini, elevandosi a capitale dell’integrazione del Mediterraneo. La pesca, in tutto questo, ha avuto un ruolo prioritario; settore che ha coinvolto molti abitanti del Nord Africa che si sono trasferiti a Mazara del Vallo.

Oggi a bordo dei pescherecci si realizza il modello d’integrazione: gli equipaggi sono misti, formati da italiani e tunisini; a bordo si condividono modi di cucinare, di lavorare, di pregare. Questo miscuglio di esperienze fa sì che gli equipaggi della marineria mazarese sono competitivi nel Mediterraneo, creando questo valore aggiunto che consentirà, per alcuni decenni, di avere il dominio assoluto in termini di pesca in questo mare. Ma questo mestiere così antico non riesce a ricevere le giuste attenzioni; i processi che negli anni sono stati visti come fattori positivi nella pesca si sono trasformati in vere e proprie catastrofi. La globalizzazione ha fatto diventare vulnerabile un settore che per sua natura è fragile e debole e si scontra con sistemi produttivi che non usano le stesse regole del gioco.

L’Unione Europea ha difeso poco il valore della pesca nel Mediterraneo, favorendo di più gli interessi della pesca dei mari del Nord. E l’Italia che fa? Nel nostro Paese il settore della pesca è considerato marginale, visto che non riesce a dare a tutto il sistema pesca un ammortizzatore sociale strutturato; non si riesce a riconoscere “usurante” un lavoro che è l’emblema della fatica.

Tommaso Macaddino e Giovanni Di Dia
Segretari provinciali Uila pesca e Flai Cgil

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