La nostra società sembra aver bisogno di situazioni estreme per rimettersi a pensare e per esercitare la ragione e la ragionevolezza in questo nostro tempo. L’attacco e l’eccidio, barbaramente perpetrati contro il giornale satirico «Charlie Hebdo», ci trovano tutti concordi nella condanna senza appello di questo crimine. non si può uccidere per nessun motivo, e meno che mai in nome di Dio. Questo vale per tutti gli uomini e comporta la condanna dell’uccisione di ogni uomo, sia ateo, musulmano, o cristiano. e dovrebbe valere di più per i fedeli di qualsivoglia religione. noi cristiani, poi, dovremmo ricordarci che il nostro Dio si è lasciato crocifiggere, innocente e indifeso, senza nessuna resistenza e senza imprecazioni, dai suoi uccisori. anzi, li ha scusati dinanzi agli uomini e soprattutto al cospetto di Dio. Detto questo, ci sono delle considerazioni che si possono, o si debbono, fare a margine, ma che attingono al cuore di ciò che è successo. che i fondamentalisti islamici, come noi li identifichiamo, abbiano ucciso, a loro dire, in nome di Allah, questo non li giustifica affatto.
Ma questo non dà neanche ragione a chi rivendica e difende il diritto di blasfemia, un diritto qualificato come assoluto. La questione, dunque, riguarda ciò che è assoluto e ciò che è relativo. e per risolverla non ci si può riferire a due assoluti: la ragione da una parte e la religione dall’altra, perché altrimenti si scatenerebbe una guerra senza fine. Si può, perciò, pretendere ragionevolmente di avere un assoluto, riconosciuto dagli altri, senza riconoscere e rispettare l’assoluto degli altri? il rispetto di una pluralità di assoluti, di fatto esistenti, è condizione indispensabile per non relativizzare tutto e tutti, gli altri e pure se stessi. Se l’assoluto degli altri non è assoluto, e lo posso relativizzare con la critica, la satira, o la blasfemia, debbo riconoscere agli altri, per coerenza, la stessa capacità di relativizzare il mio diritto e tutto quello in cui credo. Se vogliamo il dialogo e la convivenza pacifica, l’assoluto che può fare incontrare è il rispetto assoluto dell’altro.

Solo così si può vivere insieme la convivenza delle differenze, senza distruggere gli altri e senza distruggersi assurdamente e scioccamente. in questo contesto si può azzardare il sogno di un mondo nel quale, per l’uccisione di chiunque, tutti gli altri uomini, nessuno escluso, mettendo da parte le loro diverse convinzioni, scendono in piazza insieme per manifestare il proprio dissenso verso chi fa del male all’uomo e per riaffermare la loro unità. non si può continuare a coniugare «Je suis…», dimenticando il «nous sommes…». infatti, «Je suis», completato con «Charlie», musulmano, cristiano, o altro, porta a dividersi; al contrario, «nous sommes » induce a riconoscere che tutti e sempre siamo «semplicemente uomini». Questo, e solo questo, rispetto a ciò che può dividere, è quel di più che unisce sempre tutti, anche se non sempre in tutto!
Monsignor Calogero Peri, Vescovo di Caltagirone
La lotta al terrorismo islamico: no alle bombe, sì a un cammino insieme
La vicenda di «Charlie Hebdo» è una di quelle tragedie umane che per la loro complessità meritano una riflessione approfondita non solo per cercare di capire, ma anche e soprattutto per prevenire altre follie e per salvare altre vite umane. Se ci limitiamo alle emozioni, alle condanne, al cosiddetto “conflitto di civiltà” presunto o reale, “all’incompatibilità tra Islam e Occidente”, alla sterile retorica tra una “cultura della vita” e “una cultura della morte”, a fiumi di parole sul fanatismo religioso, rischieremmo di non capire e rimarremmo fermi ai sintomi, all’apparente, all’accidentale, agli effetti collaterali; e se, per affrontare simili sciagure, ci accontentiamo delle dichiarazioni dei nostri governanti sulla sicurezza, ci facciamo inebriare dal richiamo identitario di alcuni nostri politici e dagli appelli alle armi di alcuni nostri giornalisti, correremmo il serio rischio di vivere momenti ancora più tragici.
Finite le emozioni, le manifestazioni e le condanne, rimane quindi il nostro doveroso sforzo di capire. Tanti sono gli interrogativi a cui dobbiamo tentare di dare delle risposte e tanti sono i problemi che aspettano soluzioni. La satira può avere dei limiti? Un ateo deve essere prudente quando vuole deridere ciò che è sacro per milioni di fedeli o la sua libertà è assoluta? Possiamo dire che “il Corano è merda” sapendo che, per un miliardo e mezzo di musulmani, non si tratta di un testo scritto dagli uomini ma della Parola increata di Allah? Può un giornale raffigurare la Trinità con il Figlio e il Padre nudi che fanno l’indicibile, sapendo che sono oggetto di adorazione e di venerazione di milioni di cristiani? E poi, come possiamo conciliare ciò che è, per gli uni, libertà della satira e ciò che è, per gli altri, offesa del sacro, oppure questa è una domanda che il satirico non deve nemmeno porsi? I satirici non hanno più altri argomenti su cui satireggiare o, nonostante siano consapevoli della follia dei loro interlocutori, sono pronti a morire per una vignetta?
Non si tratta qui di mettere in discussione la libertà di un ateo di sbeffeggiare un Dio, o di limitare la creatività dei satirici che spesso ci fanno divertire. Mi chiedo invece se non sia opportuno e giusto essere più prudenti? Se io fossi il direttore del famoso giornale parigino non avrei esitato un attimo a invitare i miei artisti a rinunciare alle vignette sull’Islam, e ciò non significa rinunciare alla libertà ma vuol dire continuare a vivere e impegnarsi diversamente e su altri fronti per realizzare quella libertà senza pagare la loro vita come prezzo. Personalmente, avrei voluto vederli vivi ancora per continuare a deridere tutti noi e per continuare noi a ridere guardando le loro vignette. Nonostante i 17 morti, il primo numero di «Charlie Hebdo» dopo la tragedia, sbatte Maometto – di cui è vietata la raffigurazione nel mondo islamico – in prima pagina.
Questa volta, il giornale è condannato dai governi moderati e dalle istituzioni del mondo islamico e migliaia di musulmani comuni sono usciti a manifestare in molte città arabe e islamiche, e in qualche caso, come in Niger, gli scontri con la polizia hanno fatto cinque morti. Infine, due domande ineludibili: 1. Come si fabbrica un terrorista islamico? 2. Come possiamo lottare contro il terrorismo di matrice islamica? Andiamo a bombardare semplicemente per “civilizzare” e “democratizzare” i “barbari”, o teniamo conto di tutti i fattori che contribuiscono ad alimentare questo fenomeno? Fattori che qui possiamo soltanto elencare: la politica occidentale in Medio Oriente da quando è stato scoperto il petrolio, il colonialismo di ieri e l’imperialismo di oggi, il sostegno alle petromonarchie e al fondamentalismo dei wahabiti contro l’allora nascente nazionalismo laico nel mondo arabo, la questione palestinese, il sostegno iniziale a Bin Laden, l’invasione e la conseguente distruzione dell’Irak, l’ingerenza e l’influenza nelle guerre siriana e libica, la povertà e l’arretratezza delle mentalità nel mondo arabo e islamico, le disuguaglianze sociali nelle periferie europee, l’islamofobia.
Abdelkarim Hannachi, docente Università Kore di Enna
La libertà di stampa senza freni rischia di produrre effetti boomerang: necessario attenersi a delle regole
«Je suis charlie», ma… la satira, oltre che libera, deve essere pure responsabile! perché la libertà appartiene a tutti, non soltanto ai vignettisti. Se ironizzando sulle religioni, inconsapevolmente, si finisce per fungere da catalizzatore di conflitti, è necessario fermarsi e riflettere. perseverare non porta a nulla di buono! La strada intrapresa dal giornale satirico francese, del resto, non ha neppure sortito l’effetto politico auspicato dagli autori: l’attentato a «charlie», probabilmente, è stato, infatti, funzionale al progetto di chi si adopera per bloccare, proprio quando il momento storico è particolarmente favorevole, la nascita dello Stato palestinese. Satira e giornalismo sono due settori del complesso m o n d o della comunicazione che si intersecano ed operano, in sinergia, con l’obiettivo primario di far crescere la coscienza critica.
La libertà di stampa è il perno di ogni democrazia; tuttavia, se non ha freni inibitori (imposti non per legge ma dalla coscienza di chi comunica) rischia di produrre effetti boomerang. rispondere a delle regole, stabilite dal buonsenso, non significa limitare la propria libertà di espressione. al contrario, significa essere al servizio della collettività. Se un giornalista non avesse buonsenso produrrebbe molti guai.
Libertà vuol dire non essere condizionati da lobby e potentati; ma non certo non tener conto delle conseguenze nefaste che può avere un articolo. Se ho in tasca uno scoop, ma la sua pubblicazione può “bruciare” una delicata inchiesta giudiziaria, deve prevalere il senso di responsabilità. perché la libertà di chi sta indagando ha la stessa dignità della libertà della mia penna.
Gianfranco Criscenti, giornalista Ansa