Due termini suggeriti dalla lettera agli Ebrei, assai significativi nel linguaggio biblico: franchezza e perseveranza (ostinazione, persistenza), che evidenziano due atteggiamenti richiesti ai discepoli per fronteggiare i rischi a cui li espone la loro fede. La franchezza dice capacità di parlare apertamente e di professare senza reticenze le proprie convinzioni, con la consapevolezza di andare incontro a resistenze e contrapposizioni. La perseveranza fa riferimento alla tenacia richiesta per mantenere un coerente stile di vita, nonostante tutto. Alla base di queste due direttrici sta la profonda convinzione in ordine alla bontà della causa a cui si è dedicata la propria vita. “Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di perseveranza” (10,35-36). «Nella logica di adattamento del messaggio rivelato non è difficile comprendere in quale misura occorrano, a chi opera nel campo giudiziario, franchezza e perseveranza nel compimento corretto e scrupoloso del proprio ufficio e ruolo, ciascuno con la propria specificità: giudici, magistrati inquirenti, avvocati, personale ausiliario. La complessa macchina giudiziaria, pur diversificata per uffici e funzioni, in verità, pone tutti su un piano di uguaglianza quanto alle doti e ai requisiti morali e professionali, necessari per rendere giustizia a chi la chiede, nei tempi e nei modi definiti per legge».
Così il Vescovo monsignor Domenico Mogavero oggi pomeriggio nella sua Omelia per la messa d’inaugurazione dell’anno giudiziario, celebrata nella grotta della parrocchia Madonna della Cava a Marsala, alla presenza di una folta delegazione di avvocati, del presidente del Tribunale di Trapani, Roberto De Simone, dei presidenti delle delegazioni di Trapani e Marsala dell’Unione giuristi cattolici, Michele De Maria e Nino Alabiso. «Per finire – ha detto ancora il Vescovo nell’omelia – mi permetto di affidarvi queste due consegne, ispirate alla Parola di Dio che abbiamo ascoltato: essere operatori di una giustizia che parla con le opere che le sono proprie e custodire questo tesoro attraverso il culto del silenzio; non temere di esporsi con la franchezza della verità, protetta dalla perseveranza convinta della propria buona causa. Sono due consegne che possono sembrare una scelta di debolezza indifesa, ma prendo a prestito una convinzione di san Paolo per affermare il contrario: “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10)».
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