Con il progetto “Operatori di pace” la Chiesa mazarese vuole corrispondere appieno alla sua vocazione di «Chiesa di frontiera», così come la definì san Giovanni Paolo II. E lo fa con un segno originale e tangibile che mette in luce la sua peculiare vocazione per la causa del Mediterraneo e per la costruzione di un ponte culturale e interreligioso che renda giustizia allo splendido quanto tormentato mare che ha generato la storia stessa della civiltà europea. La storia di una civiltà che si ricostruisce seguendo tutte quelle coordinate relazionali che l’hanno legata, in tempi e modi diversi, ai paesi del nord Africa e all’Asia minore, seguendo almeno gli itinerari della diaspora ebraica, le inculturazioni dell’evento cristiano e l’espansione islamica.
Il progetto, inaugurato il 9 giugno scorso alla presenza del cardinale Mario Grech, Segretario generale del Sinodo dei Vescovi, non nasce dal nulla e ha una sua lunga anche se pur recente storia che ha inizio negli anni ‘70 del secolo scorso, quando dal Maghreb partirono i primi migranti per trovare impiego sui pescherecci di Mazara del Vallo. Arrivarono solo gli uomini, senza famiglia, senza lingua, privi di tutto. Lo sguardo di un vecchio prete si posò su di loro, ponendosi l’interrogativo cristiano circa le forme dell’accoglienza di quella povera gente che attraversava il Mediterraneo in cerca di pane, mille e cento anni dopo averlo attraversato in cerca di terra da conquistare, nel lontano 827. Diede il via, padre Gaspare Morello, a tutte quelle iniziative di aiuti in favore dei «poveri lavoratori tunisini lontani dalla patria, soli, ansiosi dell’oggi e del domani, e quindi bisognosi d’aiuto, di difesa, di protezione ». Si prodigò per la venuta a Mazara del Vallo delle Suore Francescane missionarie di Maria, ancora oggi presenti sul territorio, che misero in atto tanti servizi per quegli immigrati e le loro famiglie che cominciavano ad arrivare.
L’eredità spirituale di padre Gaspare Morello non è andata perduta. La Chiesa mazarese l’ha raccolta, pur senza avergliene mai attribuito particolare e pubblico merito, e l’ha fatta fruttificare, fino al presente. I semi da lui seminati nella sua lunga vita di prete appassionato sono diventati frutti di bontà, bellezza, verità. Il progetto «Operatori di pace» viene da quell’albero e sicuramente padre Morello si compiace dal cielo e offre la sua preghiera perché si compia, finalmente. Perché si compia in questo tempo in cui «le acque del Canale di Sicilia si fanno tempestose» e ne subiscono l’impeto cristiani e musulmani naviganti su una stessa barca. Perché si compia una pace superiore, alta, che sia frutto della giustizia e non degli intrighi neocolonialistici interessati unicamente al raggiungimento di scopi economici e di parte. Una pace che deve trovare nell’Europa la principale artefice e la principale interessata. Perché da quel mare tempestoso solcato da Odisseo e poi da Pietro e da Paolo è nata l’Europa che, adesso, in esso rischia di annegare se da esso distoglie lo sguardo, misconoscendolo come grembo e origine, come luogo della sua futura esistenza e prosperità.
L’orizzonte cui mira il nostro Centro è ampio e alto, e non lo si potrà raggiungere senza la cooperazione di tutti, senza la sintesi delle intelligenze, delle volontà, degli impegni individuali e collettivi. Il nostro Centro ha bisogno di forze giovani, ecclesiali ed extra ecclesiali. Occorre che le forze giovani ancora presenti sul nostro territorio e quelle che si aggiungeranno, provenendo dall’altra sponda del Mare nostrum, si coalizzino per un lavoro paziente e non semplice di costruzione di un mondo senza confini culturali e ideologici, per la costruzione di una pace che non sia solo assenza di conflitti ma soprattutto assenza di ingiustizie. Nel Centro interreligioso per l’integrazione e la cittadinanza interculturale si dovranno coniugare sapientemente progettazione, ricerca, studio e una fattiva azione caritativa nel territorio attraverso l’ospitalità di giovani immigrati. Un luogo che sia anche punto di riferimento aperto a tutti i giovani, italiani, tunisini residenti e ai profughi.
Il futuro dovrà essere interculturale! Ma occorre fare una precisazione sul termine “interculturale” che può correre il rischio di essere frainteso. E lo faccio con una osservazione di Raimon Panikkar che, per chi non lo conoscesse, è stato un prete senza frontiere. Lui traduce interculturalità con “convivialità” e dice: «L’interculturalità è la vera democrazia, perché tu “ospite” hai tanto diritto quanto me “ospitante” ad avere la tua cultura. Ormai non possiamo più vivere in compartimenti stagni, separati, ma dobbiamo entrare in questa osmosi, nella convivialità, nella reciproca ospitalità che prende l’altro non solo sul serio ma lo accoglie con amore».
don Leo Di Simone
responsabile del progetto “Operatori di pace”