[L’EDITORIALE] Social network, la comunicazione nella rete: pregi e limiti

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Il mondo dei social ha svelato modi assolutamente inediti di comunicare e di instaurare, quindi, relazioni. Ma questo termine all’improvviso è diventato troppo largo, troppo capiente rispetto ai confini ben circoscritti che ne delimitavano gli ambiti quando la comunicazione veniva effettuato nella forma verbale e in quella scritta. Oggi, entro i confini illimitati della relazionalità virtuale, le dinamiche comunicative hanno assunto tonalità sempre più sfumate, fino al punto che gli interlocutori, nonostante i serrati contatti pluriquotidiani, il più delle volte non hanno volto né forma.

In verità, nessuno può negare i risvolti assai positivi che la globalizzazione della comunicazione ha determinato in termini di rapidità dei tempi, di amplificazione dei messaggi e di estensione dei destinatari. Tuttavia, è innegabile che l’allargamento dei confini della piazza mediatica ha prodotto anche guasti non indifferenti proprio sulla qualità della relazione, determinando un effetto perverso per il quale l’aumento della quantità degli interlocutori ha causato uno scadimento incalcolabile della qualità del prodotto. Infatti, la piazza del villaggio (l’antica agorà) si è trasformata rapidamente in un cortile sguaiato e volgare nel quale la fanno da padroni quelli che non hanno nulla da perdere e che mai avrebbero trovato ascolto in una platea democratica e popolare.

È nota la tranciante frase pronunciata da Umberto Eco nel 2015, dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all’Università di Torino: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». Certamente si tratta di un’affermazione paradossale che nelle intenzioni dello scrittore polemico non suonava ostracismo per la rete. In ogni caso, è chiaro che in quelle parole c’è più di un fondo di verità, come ragionevolmente può confermare anche il meno aduso al mondo dei social.

Non penso esistano rilevazioni sulle percentuali dei post pertinenti e garbati rispetti a quelli pieni di insulti e di sconcezze irripetibili. Però, è di tutta evidenza che questi ultimi superano di gran lunga i primi. E quello che più sbalordisce è il fatto che i giudizi e i vituperi non riguardano l’oggetto di quanto qualcuno si è permesso di affidare alla rete, ma piuttosto la persona che ha avuto l’ardire di mettersi in gioco. Si ha la chiara sensazione che i dileggiatori, gli strombazzatori di pernacchie si considerino i padroni assoluti dei social e mal gliene incorre a chi si permette di entrare nel loro dominio riservato. Ancora peggio, si innescano meccanismi spregiudicati che fanno perdere sempre più di vista il punto di partenza iniziale in favore di derive incontrollabili in cui si ritrova di tutto e di più. Alla fine succede come nell’aria della “Calunnia” del Barbiere di Siviglia di Rossini: si parte da «un venticello, un’arietta assai gentile», per passare a una «schiamazzo» e finire in «un’esplosione come un colpo di cannone, un tremuoto, un temporale, un tumulto generale, che fa l’aria rimbombar».

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Suggestiva, ma assai veritiera e realistica, è anche la parafrasi che ne fa in una sua canzone Edoardo Bennato. Abbiamo qui proprio la rappresentazione plastica di cosa succede quotidianamente nella rete, con le conseguenze finali descritte sempre in quell’aria: «E il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte va a crepar».

Alla fine, il conto è presto fatto. Non ti conoscono, ma ti attaccano; non si confrontano con quanto hai scritto, ma ti coprono di disprezzo e di fango; non hanno un nome e un volto, nonostante generalità più o meno fasullo, ma fanno a pezzi il tuo volto e la tua dignità; e fin qui sono rimasti impuniti, anche se il vento sembra stia cambiando. Si può rimanere spettatori distratti e inerti, almeno fino a quando non si è toccati direttamente? Penso proprio di no, perché dopo sarà troppo tardi e perché, in ogni caso, si tratta di una questione di civiltà e di cultura.

Domenico, Vescovo

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