Come stanno le mafie? La domanda è d’obbligo ai tempi del lockdown imposto dalla pandemia del coronavirus. Come hanno inciso le prescrizioni e le limitazioni sulle loro attività criminali? E come si sono adeguate a questa inedita condizione? Gli affari, le azioni delittuose, gli incontri, i conciliaboli per programmare le attività richiedono pur sempre presenza fisica, movimenti di cose e di persone mentre per quasi tre mesi l’intera Italia ha sperimentato l’isolamento, peraltro rigidamente controllato dalle forze di polizia anche se per finalità sanitarie. Di sicuro c’è che la nuova situazione ha reso particolarmente difficile e rischioso l’agire delittuoso e dunque l’immobilità, il non movimento in questo periodo ha fatto diminuire il numero dei reati. Ma la pandemia ha però fatto aumentare le opportunità per gli affari illeciti, e dunque il potenziale di gravi reati che, se commessi, rischiano di inquinare la nostra economia e di indebolire la nostra democrazia.
Anche in Italia il lockdown ha generato una gravissima crisi sociale ed economica che ha bloccato il motore delle attività con gravissime ricadute sulle nostre famiglie: perdita di posti di lavoro, licenziamenti, crisi di liquidità, carenza di transazioni e di scambi, interruzione di attività imprenditoriali, artigianali, commerciali, rallentamento della pubblica amministrazione. Effetti disastrosi della pandemia che possono però rappresentare una vera manna dal cielo per le organizzazione criminali dotate di robusti capitali e di liquidità, di presenza sul territorio e soprattutto di capacità di interlocuzione con i ceti sociali più disagiati e con i ceti imprenditoriali. Sono proprio le mafie quindi a potere trarne beneficio, riciclando il denaro sporco, praticando l’usura, rilevando con denaro contante quote societarie così acquisendo e comunque controllando le imprese in crisi, specialmente in quei settori come la ristorazione, il commercio e i servizi, dove sono tradizionalmente presenti.
Dunque, rischio concreto che la loro nefasta presenza nell’economia pulita venga rafforzata. Non meno preoccupante è però la loro speciale capacità di attivare, nei territori di riferimento, una sorta di welfare sociale nei confronti degli strati della popolazione meno abbiente che ha maggiormente patito le conseguenze delle crisi: aiuti concreti alle famiglie bisognose con beni di prima necessità, generi alimentari, vestiario, farmaci, sostegni vari in cambio di riconoscenza e consenso. La peggiore delle controprestazioni, un propellente di straordinaria efficacia per il consolidamento delle organizzazioni mafiose che hanno la tradizionale vocazione a porsi come organo extra ordinem di mediazione e di perequazione dei rapporti in luogo di uno Stato che si dimostra inadempiente rispetto ad iniziative essenziali di tutela sociale. Si corre così il rischio che queste organizzazioni, ben radicate nella nostra società, che ricercano e ricevono il consenso della gente, possano perpetuare il loro potere.
Senza essere profetici, le vedremo all’opera in occasione di prossime competizioni elettorali quando cercheranno (o saranno cercate da) i giusti interlocutori politici per trasformare in voti, il bottino del consenso e della riconoscenza acquisito durante la pandemia. Insomma, nuove opportunità di rilegittimazione con la stipula di rinnovati patti politico- mafiosi. Se questi segnali non vengono colti dallo Stato per mettere celermente in campo le dovute contromisure, risulterà ancora più difficile contrastare l’infiltrazione mafiosa nell’economia e nella società. E ciò perché, superati gli impedimenti e le costrizioni del lockdown, il ritorno ad una normalità che però dovrà fare i conti con lo sconquasso degli effetti della crisi innescata dalla pandemia, può in definitiva trasformarsi in un formidabile ricostituente per le organizzazioni di tipo mafioso.
Questo momento storico, con le sue inusitate contingenze, rischia, in particolare, di ridare fiato alla mafia siciliana, a cosa nostra, che più delle altre organizzazioni criminali è stata fiaccata dalla costante e martellante azione repressiva dello Stato iniziata poco dopo gli anni bui delle stragi del ’92 e del ’93. Serve quindi grande cautela ed un supplemento di attenzione per non disperdere i risultati conseguiti evitando che si possa tornare indietro. Può comunque ragionevolmente affermarsi che quel passato, quei tempi e quella mafia non torneranno più. La cosa nostra delle stragi, degli omicidi eccellenti, della violenza terroristica, dell’asfissiante dominio territoriale, dell’arrogante ed impunito potere criminale è stata infatti disarticolata e debilitata dalla veemente reazione dello Stato che, senza mai abdicare alle regole dello stato di diritto, ha portato e mantenuto nelle carceri l’esercito ed i capi dell’organizzazione inchiodandoli alle loro responsabilità penali.
E seppure sono rimasti senza risposta i tanti interrogativi sulle possibili compromissioni di soggetti esterni all’organizzazione mafiosa, se non sono state rischiarate le tante zone d’ombra che si sono addensate intorno ai passaggi cruciali della sua storia, quello rimane comunque un esito del quale andare fieri, come siciliani e come italiani. La risposta giudiziaria dello Stato ha certamente ridimensionato, e di molto, Cosa nostra e il suo potere criminale; il versante repressivo ha funzionato e funziona, pur tra tante difficoltà. I successi della lotta alla mafia, di una lotta durissima e difficilissima, hanno i volti, poco noti, di magistrati ed appartenenti alle forze di polizia che, partendo da fatti e non da tesi precostituite, hanno sagacemente ricostruito condotte e responsabilità di singoli individui nell’equilibrata consapevolezza che nel processo penale esiste solo ciò che si può e si riesce a provare.
Ma non tutti, anche tra gli addetti ai lavori, sono pronti a riconoscere con nettezza questi risultati, da taluni ridimensionati perché limitati alla sola parte “militare” dell’organizzazione e quindi alla parte meno “nobile” dell’impegno antimafia la cui salvifica missione esige di dovere attingere ai livelli più alti del sodalizio e soprattutto a quelli esterni. Come se le migliaia di condanne, molte delle quali a vita, nei confronti di altrettanti uomini di cosa nostra responsabili dell’orrore delle mattanze di uomini, donne e bambini che ha sconvolto per diversi decenni la vita dei siciliani, a lungo limitati ed impediti nelle libertà fondamentali in una sorta di lockdown ante litteram, non contassero niente o contassero poco. Talaltri questi risultati li misconoscono perché ammettere che cosa nostra è stata comunque ridimensionata nella sua pericolosità comporterebbe il correlativo ridimensionamento di apparati, di status professionali, di carriere, di posizionamenti mediatici, di immagine, di rendite di posizione e di altri interessi ancora, sicchè, al di là della ragionevole prudenza e del monito a non abbassare mai la guardia, è conveniente continuare a sostenere tronfiamente che la mafia è più forte che mai.
Anzi che si è evoluta, che ha cambiato pelle in un crescendo tale da legittimare una visione pan mafiosa della realtà, con l’etichetta “mafia “ sempre pronta ad essere appiccicata ora a vicende corruttive ora agli sprechi e alle inefficienze della pubblica amministrazione, ora alla malversazione di fondi e contributi ora alle clientele della politica. Un gran polverone in cui tutto, appunto, diventa mafia. E in tal modo, rifuggendosi dall’analisi e dai distinguo e soprattutto dalle risultanze giudiziarie, si perdono di vista i veri connotati di cosa nostra, della sua organizzazione, del suo metodo, della sua azione e della sua storia con l’effetto di ostacolare se non impedire una seria antimafia.
Appunto, una seria antimafia. Perché è anche su quelle basi che si è sviluppata e ha preso campo l’antimafia farlocca e criminale, quella da usare per fini di parte, frutto dell’inaccettabile strumentalizzazione di un bene prezioso: il rigetto del potere mafioso, entrato a fare parte del dna di intere generazioni dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. E non era così scontato che accadesse. Ciò che doveva essere normale esercizio civico – contrastare i mafiosi, rispettare la legge- non solo è diventato un merito da esibire ma, purtroppo, anche lo schermo per agire illecitamente. Politici, giornalisti, magistrati, manager, avvocati, preti ed altri ancora, il campionario è vasto, in molti hanno strumentalizzato la lotta alla mafia e l’affermazione della legalità per interessi privati, meschini, di immagine, professionali sino a trascendere nel crimine, come ci insegnano vicende recentissime e meno recenti.
E così ha preso il sopravvento l’antimafia folcloristica, parolaia, di auto blu a sirene spiegate, costruttrice di carriere, di interessi e relazioni, di affari e di illecite ricchezze, che ha sfruttato storie e dolori, che cerca la vetrina, che parla di eroi per costruire le proprie fortune, che ha fatto e continua a fare tanti danni. Ma nessuno alla mafia, quella vera. Ed è cosi che oggi dobbiamo difenderci anche da questo nuovo nemico, perfido ed insidioso, che ostenta la stella al petto dell’antimafia e della legalità, che lucra e si arricchisce, che occupa posizioni di potere, che gode dell’ipocrita accondiscendenza di molti e che soprattutto confonde. Come stanno le mafie?
Massimo Russo
magistrato