Morti, morti e ancora morti… Non passa giorno che non si debba registrare una triste litania di persone giunte, o fatte giungere contro la loro volontà, al capolinea della vita. Numeri sempre più impressionanti per quantità, per genere, per circostanze le più incredibili, per fatalità, per violenza; singoli, gruppi, stragi. La cronaca quotidiana sembra essere destinata a diventare in modo sempre più allarmante un grido strozzato di morte, piuttosto che un inno gioioso alla vita. L’antico, e ormai anacronistico, requiem sovrasta di gran lunga il festoso canto alla vita e alla gioia che pure vorrebbe esplodere nel cuore di tanti.
E di fronte a tanto deserto arido e martellante come si reagisce? Sul momento prevale l’onda emotiva, particolarmente quando i dettagli di una disgrazia o di una sciagura impediscono di rimanere inerti, in una sorta di autodifesa, o di mal represso compiacimento per lo scampato pericolo (poteva capitare a me, o a qualcuno dei miei!). Allora, il tutto si risolve nella partecipazione al rito collettivo delle esequie o del commiato variamente espresso, nel quale i sentimenti sono i più contrastanti: dal sincero sgomento, al bisogno di manifestare vicinanza e solidarietà, fino ad arrivare a forme di esibizionismo immotivato, o di curiosità becera, o di scandalizzata indignazione. In ogni caso, esauritasi la corrente emotiva, con la stessa rapidità che l’ha generata, tutto ritorna nel grigiore assuefatto che metabolizza anche gli episodi più raccapriccianti.
Succede così che, pur convivendo quotidianamente con la morte, si finisca con il renderla innocua, ignorandola, o facendo finta che essa sia una eventualità che non ci riguarda. Pronti, tuttavia, a rifare il percorso ipocritamente addolorato alla prossima notizia di morte che in qualche modo possa riguardarci. In tale contesto rimane, purtroppo, senza soluzione il nodo inquietante del nostro rapporto con la morte; con questa realtà ineluttabile della vita, infatti, restiamo assai riluttanti a voler fare i conti, sebbene ci si debba misurare con essa quasi quotidianamente. Queste considerazioni mi vengono alla mente nell’imminenza della commemorazione dei fedeli defunti, memoria liturgica celebrata il 2 novembre.
Quel giorno in tanti paghiamo il debito di tanta smemoratezza nei confronti dei nostri defunti e di tutti quei morti che, in qualche modo, pesano sulle nostre coscienze. Un pensiero, una visita al cimitero, un fiore, un lumino ci mettono al riparo, facile e comodo, da rimorsi e rimpianti che, al contrario, dovrebbero riconciliarci con la vita, ammaestrati dal cono d’ombra che la morte proietta sull’esistenza quotidiana. Per uscire dall’astrattezza di pensieri che alla fine possono risultare fine a se stessi, penso che possa giovare una duplice indicazione per una celebrazione del 2 novembre che non ne vanifichi il messaggio. La prima dovrebbe portare a dare seguito all’emozione di qualche morte violenta che ha coinvolto famiglie che si conoscono, rimaste sole dopo l’iniziale ondata di partecipazione di massa. La vicinanza non di circostanza sarebbe di grande conforto.
La seconda indicazione dovrebbe portare a familiarizzare con il pensiero della morte per superare quello sgomento che stringe il cuore al pensiero che giungerà anche per noi quell’ultimo giorno. E per chi crede questa confidenza con «sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare» (San Francesco) non può essere disgiunta dalla certezza della risurrezione, la sola che può illuminare il mistero della morte. L’esperienza e la certezza che fecero le donne al sepolcro alle parole dell’Angelo il mattino di Pasqua devono essere la nostra forte e chiara convinzione: «Perchè cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24,5-6). È questa l’unica risorsa che può lacerare il buio fitto che avvolge la morte, con un innegabile e consolante richiamo e ritorno alla vita.
Domenico, Vescovo