La novità dell’enciclica a 4 mani, quale segno indica per la vita della Chiesa? quale continuità cogliere come storia di Dio tra di noi nel passaggio da Benedetto XVI a Francesco?
L’enciclica, in realtà, è firmata soltanto da papa Francesco e non poteva essere altrimenti, pena il cambiamento dei connotati caratteristici del genere letterario, propriamente magisteriale, di cui essa è espressione: se fosse stata firmata da Benedetto e da Francesco insieme, si sarebbe trattato di un piccolo compendio catechetico sulla fede, più che di un’enciclica. Tuttavia è lo stesso papa Francesco che dichiara, nel n. 7 – come già aveva fatto verbalmente parlando col vescovo di Molfetta qualche mese fa e poi ripetendosi ai microfoni dei giornalisti quasi alla vigilia dell’uscita dell’enciclica – che si tratta di una lettera scritta a quattro mani, pensata innanzitutto da Papa Ratzinger, che ne aveva scelto il tema e ne aveva redatto la maggior parte mentre era ancora pontefice, e ripresa in toto da papa Bergoglio, con l’aggiunta di alcune sottolineature sue tipiche. In questo fatto, che dice fondamentalmente “continuità” tra i due pontefici nel modo di esercitare il servizio dell’annuncio evangelico e dell’insegnamento dottrinale, c’è però insita una novità importante: Papa Francesco, confessando che la sua enciclica è anche – in senso stretto – del suo predecessore, sceglie di proporre il suo magistero poggiandolo sull’autorevolezza del messaggio ch’esso veicola più che sulla sua personale autorità. Insomma, con esemplare umiltà, papa Francesco ci dice che l’enciclica vale per “ciò che” dice e non per “chi lo” dice: e ciò che essa dice è l’eco del messaggio cristiano che giunge a noi lungo duemila anni di tradizione ecclesiale, sprigionandosi da sorgenti bibliche che sono ben lungi dall’essersi inaridite. Questa fedeltà nel custodire il messaggio e questa umiltà nel consegnarsi alle sue esigenze, senza sovreccedere rispetto ad esso, è ciò che più mi affascina e mi commuove nel modo di “insegnare” di Papa Francesco.
Quale legame lascia intravedere questo primo tratto di pontificato con la novità del Vaticano II?
Mi pare che tutti i primi gesti e le prime parole di Papa Francesco, anche se consapevolmente compiuti e proferite come “vescovo di Roma” prima ancora che come pontefice della Chiesa universale, traspirino l’attitudine conciliare a rivolgersi al mondo: a parlare “con” esso e non più soltanto a parlare “di” esso. Questa disponibilità dialogica è tipica del Vaticano II. E nella Lumen fidei produce un effetto da non sottovalutare: la scomparsa della severa litania degli ismi (relativismo, indifferentismo, nichilismo, consumismo, comunismo, ecc.), contro cui il magistero non recrimina più. Questa rinuncia all’apologetica mostra che il magistero pontificio, a cinquant’anni dal Concilio, di questo ormai condivide lo stile e lo spirito.
Come leggere la Lumen fidei? Cosa dice della fede?
A mio parere l’enciclica stessa richiede di essere letta con una fondamentale consapevolezza: e cioè che la fede non è il contraltare della ragione. Durante tutto l’arco della modernità s’è incancrenita la reciproca incomprensione tra fede e ragione e ciò ha aperto la strada a un pregiudizio totalmente errato, purtroppo condiviso tanto dagli “illuministi” quanto dai “credenti”: la ragione sarebbe tutt’altro rispetto alla fede. A questa sbagliata conclusione aveva reagito già, nel XIX sec., il Vaticano I, ma in termini troppo tecnici e in un gergo troppo “ecclesiastichese”. Più recentemente Giovanni Paolo II ha spiegato, nella prima parte della sua enciclica Fides et ratio, che queste due si implicano a vicenda, come sapevano bene i Padri della Chiesa e in particolare sant’Agostino. Benedetto XVI non ha smesso di parlare e di scrivere sulla reciproca integrazione che fede e ragione realizzano rapportandosi tra di esse. Ma in questa nuova enciclica, finalmente, viene ripresa la lezione conciliare della Dei Verbum, secondo cui la fede è un atto umano integrale, e come tale non può non comprendere in sé anche l’esercizio della ragione: a Dio che si rivela, infatti, l’uomo credente risponde anche con le sue risorse intellettuali e intellettive (cf. DV n. 5). Così la fede, secondo quest’enciclica, è la forma più adeguata per conoscere Dio. E questa particolare “conoscenza” ha per oggetto la Verità annunciata nella rivelazione e ha per metodo l’Amore: difatti, come leggiamo nel vangelo giovanneo, nessuno può vedere Dio se non ama, giacché Dio stesso è Amore. Ma, allora, spiega l’enciclica, la fede non è solo una conoscenza (e men che meno soltanto una dottrina), bensì una relazione: è il rapporto che riusciamo ad avere con Dio, grazie al fatto che Dio stesso a noi si volge in Cristo Gesù. E, se è relazione, è anche un cammino: il venire di Dio verso di noi innesca il nostro anelare verso di Lui; il suo venirci a cercare stimola il nostro desiderio di cercarlo, andando oltre noi stessi, oltrepassandoci infinitamente. Ciò non significa che per spingerci a vedere Dio la fede ci debba distrarre dagli uomini e dalle donne con cui viviamo in questo mondo: anzi, la fede è come la luce che riposa nei nostri occhi rendendoli capaci di avvistare l’Invisibile proprio in coloro che storicamente incontriamo, scoprendo nelle pieghe e nelle piaghe della nostra storia quotidiana la presenza inevidente del Signore, come è detto alla fine del vangelo di san Matteo («Quando mai ti abbiamo visto? Ogni volta che vi siete volti a uno di questi piccoli». Non è un caso che Papa Francesco abbi promulgato la sua enciclica alla vigilia del suo viaggio a Lampedusa.
Monsignor Aldo Naro ha insegnato la profezia della “Chiesa di popolo”, ora papa Francesco sembra additarci proprio questa via: quale legame tra fede e popolo?
Nell’enciclica il legame tra fede e popolo ecclesiale è indicato nel tema della trasmissione della fede stessa, la quale avviene non solo tramite la catechesi parrocchiale o la predicazione omiletica, ma anche e soprattutto come una sorta di “contagio” educativo, tramite l’esempio dei genitori consegnato ai loro figli, in famiglia, o tramite la testimonianza dei santi e dei martiri. Questa è una cosa bellissima: significa che la trasmissione della fede non ha un profilo soltanto “apostolico”, non è garantita solo dall’insegnamento “infallibile” dei papi e dei vescovi riuniti in concilio, ma si realizza anche come impegno di tutti gli altri discepoli, assisti dallo Spirito Santo fin dal loro battesimo (è ancora il Concilio che l’insegna, nella LG n. 12). Non c’è, infatti, solo una “successione apostolica” (di vescovo in vescovo), ma anche una “successione dei discepoli”, che si tramandano il testimone della fede di cuore in cuore, come i corridori si trasmettono, di mano in mano, la staffetta da portare al traguardo.
Don Vito Impellizzeri
CHI E’ DON MASSIMO NARO
Dal 1995 è presbitero della Diocesi di Caltanissetta. Direttore del Centro Studi Cammarata di San Cataldo dal gennaio 2004. Dal 1998 insegna Introduzione alla teologia e Teologia trinitaria presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia di Palermo, dove tiene anche la docenza di Teologia del dialogo interreligioso. Si occupa di tematiche connesse al rapporto fra arte e teologia, spiritualità e teologia, religioni e teologia.