La quaresima si conclude con una festa: la festa del corpo sacerdotale di Cristo, del capo e delle membra olezzanti profumo nuziale. La riforma del Vaticano II ha voluto che questa mattinata di fine quaresima fosse non tanto l’occasione per la necessaria benedizione degli Olei e del Crisma per la celebrazione dei Sacramenti pasquali, ma anche il momento significativo per ricordare ai cristiani la loro appartenenza all’unico corpo che è Cristo e la consistenza sacerdotale, profetica e regale di tale corpo che è Sacramento dell’Unto per eccellenza. Corpo crismato dal Padre con l’effusione forte, penetrante e profumata dello Spirito Santo per la salvezza del mondo.
Lo stesso corpo vilipeso e straziato dagli uomini e crocifisso, quasi carne di peccato. A questo unico e Santo corpo noi tutti apparteniamo e lo compaginiamo in unità perché non si rinnovi lo scempio colpevole della lacerazione. «Congregavit nos in unum Christi amor» canteremo, in verità, stasera! La riunione liturgica di tutti i cristiani e dei ministri ordinati attorno al vescovo ne è simbolo affastellante, concorso pneumatico della “reale presenza” del Signore, del tutto identica a quella nascosta sotto le specie eucaristiche. Una presenza piena e imponente, dunque, del Cristo risorto che si manifesta a quanti sono riuniti nel suo nome. E il suo nome è «olio sparso», crismazione penetrante della sua natura di Sposo ardente, mentre «noi siamo dinanzi a Dio il profumo di Cristo»(2 Cor 2, 15).
Le letture della Messa sono unanimi nel proclamare l’unzione messianica del Salvatore. La missione di Gesù scaturisce da questa unzione cantata dal Terzo Isaia ed ha contenuti ben precisi di liberazione, di salvezza, di donazione gratuita. Gesù riprende l’oracolo di Isaia e lo fa suo, lo dichiara compiuto in sé. Ciò che di autobiografico c’era nell’oracolo del profeta si tramuta in tipologia cristologica che si invera sulle labbra di Gesù consapevole di essere il Cristo di Dio. Questo pronunciamento messianico proclamato da Gesù nella sinagoga di Nazaret per Luca ha la stessa importanza del discorso della Montagna che Matteo pone in apertura della predicazione pubblica di Cristo. È, infatti, il programma inaugurale del Regno di Dio che Gesù vuole attuare nella storia e per il quale è stato inviato dal Padre e consacrato nello Spirito all’epifania battesimale. L’atto fondamentale è quello dell’evangelizzazione dei poveri: proclamare, per ciò stesso, il grande giubileo della liberazione, della luce, della gioia, della giustizia e della pace.
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Tutti i cristiani sono “consacrati” nel battesimo per impegnarsi, in quanto Corpo di Cristo, nell’attuazione di questo programma, così che il Regno di Dio sia sempre di più «in mezzo a noi». E Gesù proclama che ancora «oggi» questa verità si adempie «nei nostri orecchi» (Lc 4, 21). Essendo partecipe dell’unzione di Cristo il cristiano diventa capace di conoscere e discernere le realtà spirituali così come le povertà e le miserie di questo mondo; unto col profumo di Lui acquisisce la sua stessa compassione e intenerisce il suo cuore con la Sua stessa misericordia, per «fasciare le piaghe dei cuori spezzati». Secondo la bella formula trinitaria di Paolo «è Dio stesso che ci conferma insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2Cor 1, 21-22). Purtroppo, però, non appena si distoglie lo sguardo da questa limpida primigenia teologia si scivola facilmente nella reazione dei nazareni che non appena intesero da Gesù che la salvezza si estendeva fuori da Israele capovolsero la loro ammirazione e lo condussero sul ciglio del monte per ucciderlo (Lc 4, 29).
La loro era fede religiosa ma senza il palpito della carità, chiusa nel particolarismo, mentre quello di Gesù è un amore universale che esce dai confini della sua patria, della sua nazione, della sua etnia, della religione dei suoi padri. È un monito per il nostro cristianesimo pur dilatato e «aggiornato» ma che in sostanza resta paurosamente casalingo, nazareno, sempre nei paraggi delle sue umane tradizioni, ignorando i poveri, gli stranieri, gli oppressi che vivono oltre i propri confini o che migrano verso spiagge dove non trovano alcuna consolazione. Il corpo di Cristo che è la Chiesa deve emulare l’atteggiamento amorevole del suo Signore e Sposo, dev’essere una con Lui. La misura della sua fede deve essere pari a quella di un amore senza misura.
Anche il Salmo 88, scelto come responsorio, canta l’unzione regale del servo di Dio Davide, mentre la seconda lettura, tratta dall’Apocalisse (1, 5-8) è la più esplicita e si concentra sull’oggetto della celebrazione: Gesù «ha fatto di noi un regno e sacerdoti per il suo Dio e Padre». Nel saluto domina la figura del Cristo risorto, colui che libera l’umanità dal peccato col suo sangue, materia liturgica della nuova consacrazione nella sua morte e nella sua vita, bagno trasfigurante in cui lavare le vesti per renderle candide e adatte al banchetto nuziale dell’Agnello. E tutto questo si compie sotto i nostri occhi, tocca i nostri sensi, pervade il nostro spirito, nei santi segni della liturgia. Mentre la celebriamo facciamo la nostra professione di fede in questa potente azione trinitaria: nel Padre che ha creato, e che ci ha amati fino a darci il suo Figlio; nel Figlio di cui diventiamo fratelli e partecipi della stessa eredità sacerdotale profetica e regale; nello Spirito mandato dal Figlio che incessantemente ci fa progredire nel perfezionamento della somiglianza col Padre.
E non soltanto noi, ma tutta la creazione viene a trovarsi in stato di progressiva trasfigurazione se corrisponde all’appello della conversione davanti a Cristo crocifisso e trafitto, «battendosi il petto». In questa liturgia il Signore Dio appare come colui che dominando gli estremi dell’universo (alfa e omega, principio e fine) ingloba in sé tutte le parole e tutti gli eventi. Unendo in sé la tridimensionalità del tempo («colui che è, che era e che viene»), egli possiede la storia e la supera nell’eterno. Risentiremo queste parole nel rito iniziale della Veglia pasquale, incidendo il cero coi segni dell’eternità e del sacrificio di Cristo, Agnello sgozzato e ritto in piedi, vivo e vivificante.
In questa solenne celebrazione della Messa crismale tutta la Chiesa prega il Signore perché la consacri e l’adorni della veste di grazia, per il banchetto delle nozze divine. Che tutti indossino l’abito bianco e siano profumati con l’olio della gioia, perché già questa notte lo Sposo la attende.
don Leo Di Simone per Condividere