[VERSO PASQUA/3] Messa “in Coena Domini”: l’Eucaristia nasce dall’amore di Cristo, si celebra nell’amore e genera amore

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Ci apprestiamo a celebrare questi tre giorni santi quasi fosse un unico giorno. La Chiesa ha approntato per noi una mensa ricchissima di memoria e di grazia, di Parola e di simboli, suscitando una anamnesi liturgica che ci introduce nel cuore dell’Evento salvifico. Abbiamo la possibilità di abbeverarci alla fonte di quell’Evento e di nutrirci col Sacramento che lo rende attuale e ci sazia. E tuttavia già stamattina ci è stata data l’opportunità di celebrare il Corpus Domini nella totalità ecclesiale e sacramentale, festa di Chiesa e di Presenza; questa sera, ancora, celebriamo con commozione ciò che ha principiato e fondato il nostro essere Corpo di Cristo: la creazione del memoriale del suo sacrificio che il Signore Gesù istituì durante la Cena consumata con i suoi discepoli.

La liturgia della Parola si apre col brano dell’Esodo che descrive la Pasqua mosaica. Il rito dei pastori nomadi (agnello immolato, sangue propiziatorio, pani azzimi, erbe amare, vesti cinte) al plenilunio di primavera, è staccato dal rituale culturale della transumanza ed è inserito nella vicenda storica della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. La Pasqua non è più celebrazione della natura, del suo risveglio alla vita, ma un evento sorprendente di cui la natura si fa segno per renderne ciclica la memoria. La Pasqua biblica diventa segno vivo della presenza di Dio nella storia, della sua azione salvifica, del suo amore imprevedibile. Il suo nome deriva dall’ “oltrepassare” dell’angelo della morte che “salta” le case degli oppressi per colpire le case degli oppressori. Ma anche questa Pasqua è un segno! Segno di un’altra, universale e definitiva che noi cristiani vediamo realizzata definitivamente in Cristo.

Gerusalemme: Basilica dell’Agonia.

Il richiamo alla Pasqua ebraica, alla Pasqua di Cristo, alla “sua pasqua”, è esplicito nell’opera dei Sinottici, nelle tre narrazioni della cena di Gesù con i suoi nell’approssimarsi di quella festa. Ma la Pasqua ebraica è evocata nella sua significazione salvifica e non rituale. Un evento accaduto al tempo di Mosè che in Cristo finalmente si compie. Il rito che Gesù celebra non è sicuramente quello della cena pasquale ebraica, molto più complesso nella sua traduzione e tradizione rituale; semmai il rito di una cena festiva cui viene attribuito da Gesù un valore pasquale diverso. Giovanni, che ha una sua sublime teologia della Pasqua cristiana, del rito di “quella notte in cui Gesù fu tradito” non riferisce se non un unico sintagma: il gesto della lavanda dei piedi ai discepoli. Un gesto sorprendente, inatteso, scandaloso, segno di grande umiltà e donazione e che comunque va letto come esplicitazione performativa della celebre frase: «dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1). Gesto e frase introducono al lunghissimo discorso che Gesù tiene ai suoi discepoli durante la cena.

Gerusalemme: il Cenacolo.

Il racconto giovanneo di questa sera, per noi, comprende il famoso dialogo tra Gesù e Pietro, con l’accenno alla purificazione della coscienza evocata dall’acqua lustrale; ma nel finale appare ancora, più incisivo, il tema dell’amore e della donazione nell’appello che Gesù rivolge ai discepoli perché si lavino i piedi «gli uni gli altri», sul suo esempio. Gesto semplice, quanto perennemente inattuale, facilmente traducibile sul piano drammatico-rituale, non senza dover superare una naturale ripugnanza, ma difficilmente comprensibile sul piano esistenziale: «Capite quello che ho fatto per voi?» (Gv 13, 12).

Gerusalemme: Basilica dell’Agonia.

L’interpretazione ecclesiale, sacramentale e morale dell’evento liturgico di questa sera ce lo fornisce Paolo che scrivendo ai cristiani di Corinto evoca gli istanti dell’Ultima Cena riferiti anche da Marco, Matteo e Luca. Il suo racconto, più vicino a quello di Luca, ha la funzione di provocare i corinzi per i quali la liturgia eucaristica si era trasformata in un puro e semplice rito, senza incidenza nella vita e nella comunità perché privo di simbiosi col suo “logos”. Paolo sottolinea che l’eucaristia nasce dall’amore di Cristo, deve celebrarsi nell’amore e deve generare amore. Importante il rito! L’uomo non può farne a meno, è un elemento espressivo della sua umanità! Ma il rito fa sempre riferimento ad un logos, un discorso, un senso, una verità, che lo differenziano da altri riti che pur possono avere le stesse connotazioni esteriori.

Nel rito dell’Ultima Cena Gesù, pur seguendo e imitando la trama temporale e rituale della pasqua giudaica, imprime a quegli atti e a quella tradizione un senso nuovo ed inatteso. Sui pani azzimi pronuncia parole sorprendenti: «Questo è il mio corpo». Sul calice, detto “della benedizione”, che gli ebrei inghirlandavano di fiori e a cui bevevano con allegria, Gesù pronuncia parole ancora più sconvolgenti: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue». La profezia di Geremia (31, 31-34) sulla “Nuova Alleanza” nello Spirito di Dio sta per compiersi in pienezza con la Pasqua di Cristo che per Giovanni è l’Agnello pasquale innalzato sulla croce.

La novità aggiunta da Gesù ai riti della tradizione mosaica consiste in quelle parole e quei gesti, lavanda dei piedi compresa, che costituiscono ritualità nuova in quanto espressiva della “Nuova Alleanza”. Il testo paolino, che del resto sembra il più antico, ce lo tramanda con un linguaggio perfettamente comprensibile sia dagli Apostoli che dai primi cristiani che conoscevano l’oracolo di Geremia. Secondo Geremia, unico profeta a parlare di “nuova alleanza”, questa consiste nel dono della legge di Dio divenuta esigenza interiore anziché imposizione dall’esterno. È un fatto d’amore, inscritto nell’ “intimo” del “cuore”, una passione di fedeltà sponsale: «essi mi conosceranno» (Ger 31, 34). Ecco perché il comandamento di Gesù è detto «comandamento nuovo»: «Amatevi come io vi ho amato». E si comprende come il mediatore di una tale legge non poteva più essere un uomo, pur grande come Mosè; solo un mediatore che sia allo stesso tempo Dio e uomo può operare nel cuore stesso dell’uomo per l’agire dello Spirito Santo, dono d’amore procedente sin dall’eterno dal Padre e dal Figlio.

Gerusalemme: Giardino degli Ulivi.

Questo è il logos nuovo del rito della Cena del Signore! «Nuovo patto, nuovo rito» per tradurre liberamente le parole dell’inno di san Tommaso d’Aquino: «et antiquum documentum novo cedat ritui». Inno che conclude la liturgia di questa sera, nel suo non originario rito conclusivo che comunque ci costringe ad adorare l’assoluta novità che è Cristo Signore e a ringraziare per il suo memoriale che ci ha comandato di osservare non nella mera forma del rito ma nella bellezza, verità e bontà del suo contenuto. Deve inquietarci la riflessione arguta di una “cristiana di desiderio” come Simone Weil che afferma: «I sacramenti hanno un valore specifico che costituisce un mistero, in quanto implicano una certa specie di contatto con Dio, contatto misterioso ma reale. Nello stesso tempo, hanno un valore umano in quanto simboli e cerimonie. Credo che la maggior parte dei fedeli (compresi alcuni che sono convinti del contrario) abbiano contatto con i sacramenti solamente in quanto simboli e cerimonie». In quella Cena uno rimase completamente spiazzato. Fatta la comunione «subito uscì. Ed era notte» (Gv 13, 30).

don Leo Di Simone per Condividere

VERSO PASQUA/1 – Domenica delle Palme, ouverture del poema sinfonico trinitario

VERSO PASQUA/2 – La messa crismale: i cristiani appartengono all’unico corpo che è Cristo

 

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