«Dopo aver detto queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli» (Gv 18, 1). La Cena e il lungo discorso di addio di Gesù si erano appena conclusi, nel cuore della notte. In realtà era già il venerdì del compimento, secondo l’uso ebraico di computare il tempo, vigilia di un grande sabato. La densità del discorso e la misteriosa rivisitazione del rito col rimando al suo corpo e al suo sangue avevano turbato non poco i discepoli. Risultava difficile rintracciare il logos di quella cena, la verità che quel nuovo rito adombrava, il senso di quella vicenda di vita con Gesù nazareno che adesso sembrava approdare ad una svolta. Nel giro di poche ore la verità dei fatti avrebbe riempito del suo senso l’enigma rituale, avrebbe inverato parole e gesti, movimentato il velo che ora mostra svelando, ora copre celando.
In fondo, il teologo Giovanni scrive in ordine alla verità che la fede deve contemplare nella forma di alétheia, di ciò che si apre, si dischiude, non si nasconde, si mostra “chiaramente” e che il rito assorbe e ricustodisce intatta, celando e restituendo al cuore ciò che è “chiaro alla mente”. Sotto questo profilo, che possiamo chiamare “misterico”, il brano della Passione secondo Giovanni ha un suo primo culmine nella domanda distratta e ironica di Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 38). La verità consisteva nel fatto che «veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… eppure il mondo non l’ ha riconosciuto» (Gv 1, 9-10). Dunque Pilato, che pur non riconosceva colpe in Gesù, non poteva riconoscerne la natura di Verità.
C’è però una frase nella scena successiva che ha dato molto da pensare agli esegeti in quanto sembra volutamente ambigua e che ci fa capire come Giovanni voglia dire molto di più di quanto realmente non dica. Ad un certo punto, tra l’entrare e uscire dal pretorio Pilato «fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale»: ekáthisen epí bématos (Gv 19, 13). Ora, data la vicinanza del nome di Gesù al verbo e la possibile attribuzione di un valore attivo allo stesso verbo ekáthisen, sembra che Pilato “fece sedere Gesù” sulla tribuna installandolo sullo scranno. Non avrebbe altrimenti senso la frase dimostrativa che segue subito dopo: «Ecco il vostro re» (Gv 19, 14). Difatti, la Bibbia ecumenica traduce: «Portò Gesù all’esterno e lo installò su una tribuna». L’impressione che si ricava da questa scena è che colui che sembra essere giudicato in realtà sta giudicando l’umanità. L’episodio che sul piano storico si conclude con la condanna di Gesù, sul piano interpretativo della fede fa risplendere la gloria di Cristo nell’umiliazione della sua morte.
Notiamo la ricorrenza e la persistenza dei temi conduttori del nostro poema sinfonico della Redenzione: ancora kénōsis, ma per l’esaltazione; sconfitta, ma in vista dell’installazione sul trono della croce prima e del Regno di Dio poi; verità, ma in senso ontologico e non intellettuale. Il re indicato da Pilato è disarmato e mansueto come per l’ingresso in Gerusalemme sull’umile cavalcatura, secondo la profezia di Zaccaria (9, 9): un re umile e povero, che si consegna agli uomini. Ecco perché nel cuore del venerdì santo si erge la figura di Cristo sofferente e morente raffigurato secondo il quadro drammatico del quarto carme del Servo del Signore. In questo canto si tratteggia la nascita, la vita, la passione, la morte, la sepoltura e la glorificazione di un personaggio messianico misterioso che nasce come un virgulto in un deserto solitario; presenza viva in un mondo morto, che non può essere prodotto dal deserto infecondo del nostro peccato.
Il Secondo Isaia ce lo presenta come uomo sfigurato e macerato, eppure, contrariamente a quanto riteneva la teologia tradizionale veterotestamentaria, il suo dolore non è espiazione di un suo peccato: per il castigo che sarebbe nostro il dolore è diventato suo. È una sofferenza feconda, inflittagli da uomini che hanno dimenticato Dio, e le sue ferite sanguinanti paradossalmente ci curano. Il suo sacrificio non è voluto da Dio ma è tanto più vero, e dunque necessario, perché rende testimonianza alla Verità: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità» (Gv 18, 37). La verità è che l’uomo deve arretrare davanti a Dio e cedergli il posto. Chi compie il sacrificio si fa indietro e lascia un vuoto – kénōsis – dal quale Dio si mostra come “Colui che è”, come Essere Verità. Il compimento dell’annichilimento non è perciò fine a sè stesso, ma un passaggio, il trasferimento in un’altra sfera, là dove Dio è, Mistero indicibile dell’Essere che nessuna filosofia può concepire e raggiungere. Per questo Pilato è tagliato fuori dalla verità che si impone su altro registro a lui sconosciuto.
Solo l’uomo che arretra davanti a Dio può in verità raggiungerlo. Gesù ha arretrato fino alla morte che è garanzia del trapasso che si compie nella fede, nell’abbandono della terra e della propria esistenza terrena. E se qualche filosofia ha affermato che l’essere è “per la morte” nell’incapacità di comprendere l’Essere, la morte di Gesù è sacrificio anche della propria domanda, ultima scoria di presunzione, perdita dell’io che può ritrovarsi solamente in Dio e in lui vivere. Non sacrificio di propiziazione di un Dio crudele, soddisfazione di una giustizia oggettiva, ma offerta della propria carne e della propria vita per il primato dell’amore di Dio. In quest’ultimo senso il sacrificio è un’ontologia, una delle espressioni principali della vita stessa, una prima rivelazione della vita, il contenuto spirituale della vita. Dove non c’è sacrificio non c’è vita: «se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo, se invece muore produce molto frutto» (Gv 12, 24); è la teologia della trasfigurazione in Giovanni: dalla morte la vita, dalla kénosis terrestre all’alétheiacome aprirsi, disvelarsi, mostrarsi della vita.
E la lettera agli Ebrei, questa poderosa omelia mistagogica della chiesa delle origini, dice in proposito che la tradizione antropologica dei sacrifici trova in Cristo la propria svolta e il proprio compimento. Se il pontefice è colui che compie sacrifici, solo Cristo è vero e unico Pontefice; perché pur essendo Figlio si è messo in balia della fragilità umana e «imparò l’obbedienza» (Eb 5,7). Non ha conosciuto peccato, è puro, e il Padre guarda a lui con compiacimento, al suo passo indietro risponde con l’innalzamento. Ecco il contrappunto all’inno paolino della kénosis di Filippesi 2, ecco sgorgare l’armonia sinfonica del poema salvifico: Cristo offre la sua propria esistenza di purezza e di amore alla giustizia e alla santità eterne per le colpe degli uomini e questa perdita, questa rovina sono, come in ogni sacrificio, anche un trapasso nell’assoluto, nella gloria del più perfetto trionfo, la maestà amorevole di Dio. Questo è il giorno della vera espiazione: non più con sangue di capri e di tori, ma col sangue di Cristo sparso per tutti e “una volta per tutte” essendo il suo sangue la sua vita e il suo verbo.
Il venerdì santo la liturgia è differente. Il rito arrossisce davanti alla Parola e prende posizione ancillare facendo il suo passo indietro. Tutto è più primitivo ed autentico. L’eucaristia non può essere celebrata sacramentalmente, non se ne trova motivo, il suo rito ammutolisce davanti all’imponente presenza dell’evento. Non viene meno però il rendimento di grazie per la contemplazione del suono potente della Parola che rivela al mondo la Verità che è, e nel modo che sorpassa ogni umana immaginazione. La Croce vivificante, che si adora, ne è segno eloquente quando la stessa musica del poema sinfonico si fa silenzio e ci si mette in ginocchio.
don Leo Di Simone per Condividere