La quarta domenica del Tempo di Pasqua la liturgia pone sempre, davanti ai nostri occhi, l’icona di Gesù Pastore: nel salmo responsoriale, nella seconda lettura, nel vangelo stesso, come pure nell’eucologia. La metafora del pastore per indicare Dio è profondamente radicata nell’esperienza storica e culturale di Israele, i cui patriarchi erano pastori nomadi. La cura e la protezione che il pastore offre al gregge diventano simbolo del rapporto tra Dio e il suo popolo, come testimoniato in numerosi testi dell’Antico Testamento, tra cui il Salmo 94, il Salmo 22 e il passo profetico di Is 40,11. In questi scritti, Dio è rappresentato come un pastore amorevole, tenero e premuroso, che guida, nutre, protegge e accompagna il suo popolo anche nei momenti difficili. Nel Nuovo Testamento, Gesù riprende e intensifica questa immagine. Nei sinottici, in Mt 18, e nella parabola di Lc 15, Egli paragona Dio a un pastore che cerca la pecora smarrita, una donna che trova la moneta perduta e un padre che accoglie il figlio andato via da casa, tutti segni della misericordia divina verso i peccatori. Nel Vangelo di Giovanni (cap. 10), Gesù si definisce esplicitamente “il buon pastore” che conosce le sue pecore, le guida, e soprattutto dà la vita per loro, in netto contrasto con il mercenario che non si prende cura del gregge. La metafora del pastore viene infine ripresa anche in altri testi del Nuovo Testamento (come nella Lettera agli Ebrei, 1 Pietro e Apocalisse), confermando il suo ruolo centrale nella visione biblica del rapporto tra Dio e l’uomo.
Gesù si identifica con il pastore il quale «da loro la vita eterna e non andranno perdute». Possiamo notare come il brano di Ez 34,1-16 è strettamente affine al brano evangelico. In Ez 34 si parla dei cattivi pastori di Israele che hanno pensato a pascere solo se stessi, così che le pecore si sono disperse tra i monti e nessuno si è mosso per cercarle. Davanti allo spettacolo di costoro, Dio promette che sarà lui stesso il pastore di Israele, andrà in cerca delle pecore disperse e le farà pascolare sui monti di Israele. Il Vangelo ci indica le tre caratteristiche del pastore: «Io do loro la vita eterna», «non andranno perdute in eterno», «nessuno le strapperà dalla mia mano».
Il Pastore dona la sua vita, adesso, non alla fine dei tempi. È respiro per l’anima lasciarsi penetrare da queste parole: Io do loro la vita eterna! Un dono senza condizioni, prima ancora di qualsiasi risposta, libero da limiti e confini. È la vita stessa di Dio che si riversa in me, in ciascuno, come un seme ardente gettato nella mia terra oscura. Una linfa instancabile che risale, si espande, raggiunge ogni tralcio e fa fiorire ogni gemma. Tutto ciò che è accaduto in Galilea, il dolore del Golgota, ogni parola pronunciata da Cristo – fiamma che incendia e manna che nutre – ha un solo scopo: offrirci una vita ricca di senso, colma di realtà eterne, capaci di durare oltre il tempo. Il Pastore di cui si parla è il Crocifisso risorto divenuto ormai il Vivente per sempre (Ap 1,18), ed è Egli stesso che rassicura le sue pecore del fatto che nessuna di esse andrà mai perduta nella morte, e che nessuno la rapirà dalle mani del Pastore. Le acque delle sorgenti alle quali egli guida il suo gregge, infatti, sono acque di vita perenne (eterne): la sua vita (Gv10,15.17-18).
La relazione tra il Pastore e il suo gregge, tra Gesù e coloro che fanno parte del suo gregge, è di familiarità e tenerezza. Le sue pecore non vanno errando, ognuna per il proprio sentiero, sedotte da cattivi pastori. Esse si riconoscono dal loro aderire a lui, anche quando, come nuovi agnelli pasquali, esse venissero, con lui e come lui, condotte al macello o di fronte ai tosatori (cfr. Is 53,6-7; At 8,30-35; 1Pt 2,20-25). Infine notiamo come la mano del Padre e quella del Figlio – del Pastore – si fondono, si identificano. Nel Quarto Vangelo, la mano è il segno visibile dell’amore che si dona e si accoglie. «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35); e Gesù, «sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani» (Gv 13,3), si china per lavare i piedi ai discepoli: è il gesto supremo dell’amore che si offre, anticipazione del dono della sua vita.
La mano del Padre, aperta nel dare, si riflette nella mano del Figlio, che riceve tutto in dono e poi, come Crocifisso Risorto, la mostra a Tommaso. In quel segno trafitto si svela il mistero dell’amore trinitario: Tommaso, vedendo, lo riconosce – «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28) – e a sua volta è invitato a stendere la mano, a entrare in quella comunione d’amore: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco» (Gv 20,27). Il Buon Pastore, infatti, è colui che dà la vita per le sue pecore: è nel perdere sé stesso che egli custodisce l’amore e chi gli appartiene. E a noi, pastori erranti e mendicanti di senso, non resta che tendere la mano: un gesto povero e umile, ma capace di accogliere il dono della comunione.
Gesù dice: «Nessuno le strapperà dalla mia mano». È un’eco profondo delle parole di Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? […]. Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 35.38-39). Rimanere in quell’amore significa vivere già ora la vita piena che viene da Dio, nella certezza di una comunione che niente può spezzare.
don Daniele La Porta
IL COMMENTO ALLA SECONDA DOMENICA DI PASQUA
IL COMMENTO ALLA TERZA DOMENICA DI PASQUA


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