[QUARESIMA/4] Figli per forza, o figli dell’abbraccio?

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La quarta domenica di Quaresima segna la tappa di metà cammino nell’itinerario verso la Pasqua. E la Chiesa, nella sua liturgia, cioè nella forma più alta e significativa della sua identità, con pedagogia materna, delicata e condiscendente, sospende i colori penitenziali e indulge a tinte più primaverili e liete. È il giorno in cui si respira un anticipo di risurrezione, una pregustazione dell’approdo pasquale, preannunciato nella prima lettura della messa (Gs 5,9a.10-12) e nell’orazione colletta: «Padre, concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua orlami vicina».

E il Vangelo (Lc 15,1-3.11-32) propone la liturgia del ritorno e dell’abbraccio nella nota, ma non sempre ben capita, parabola del padre misericordioso, che comunemente è detta parabola del figlio prodigo. Non è questi, infatti, il vero protagonista del racconto, anche se occupa la maggior parte del testo; bensì il padre che all’inizio viene delineato con un breve tocco che asseconda il figlio minore, mentre si prende tutta la scena nel finale toccante del ritorno. Nel mezzo entra la figura scialba e mediocre del figlio primogenito, che della vita ha capito solo il peso della fatica e la monotonia di giorni tutti uguali e senza slanci di entusiasmo e di gioia di vivere, rappresentati dalle piccole cose che possono riempire il cuore.

L’intreccio del racconto si può intessere su alcuni verbi: dare, dividere, partire, sperperare, trovarsi nel bisogno, rientrare in se stessi, ritornare, andare incontro, abbracciare, fare festa. Su questi atteggiamenti si gioca la partita tra il figlio e il padre; con una particolarità differenziale tra i due: il figlio parte per dimenticare; il padre resta per attendere colui che certamente tornerà, ne è stato sempre convinto. Il primogenito, invece, non si coinvolge e resta freddo nella maledizione – così fa vedere di pensarla – del lavoro, che lo estrania dagli affetti e dai sentimenti. E mentre i primi due, dopo la tribolazione lacerante dell’abbandono sperimentano la gioia dell’incontro ritrovato e dell’abbraccio che ridà vita alla relazione infranta, lui, il maggiore, incapace di capire, rigetta il padre e il fratello e disdegna la festa.

Gesù lascia la parabola aperta perché essa non può avere una conclusione, né amara (il figlio maggiore non partecipa alla festa), né a lieto fine (a tarallucci e vino); essa, infatti, è risposta all’iniziale insinuante interrogativo dei farisei e degli scribi: «Costui (Gesù) accoglie i peccatori e mangia con loro» (Lc 15,2). La conclusione del racconto e la sua interiorizzazione sono lasciate a ciascun ascoltatore, al quale tocca applicare a se stesso la parabola e le figure che in essa agiscono e prendere posizione, non per l’uno o per l’altro dei protagonisti, ma scegliendo l’atteggiamento che può rappresentare al meglio il proprio impegno di avvicinamento alla Pasqua verso la vita nuova dell’abbraccio ritrovato con Dio.

Domenico, Vescovo

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